Inchiesta
Un poeta, un maestro e due toreri, allineati su un orizzonte rosso, in un campo fremente di grilli.
Il fiscal Vicente Reyes Montero inforcò gli occhiali scuri e soffiò. C’era un caldo da mal di testa, una nausea da sbronza d’anice, e quel frinire di cicale nelle orecchie, e tutto quel giallo, giallo il cielo la terra gialla, tutto quel giallo negli occhi. Il contadino zappava su una collina argillosa vicino agli olivi, corti, nerboruti, coriacei, e con un asilo d’ombra appena sufficiente per la lingua assetata di un cane.
Nei pressi di una fonte che gli arabi chiamavano Ainadamar, Fontana delle Lacrime.
Il contadino rugoso e vissuto non badò a quello straniero vestito da signore, vestito di bianco, scarpe e cappello compresi. Aveva la stazza e la faccia di uno del nord, e anche quando parlava gli sentivi nella voce la bruma dei fiordi cantabrici che sgocciolava via in una cantilena simile a quella dei portoghesi. Il contadino zappava e si faceva gli affari suoi, erano trent’anni buoni che si faceva gli affari suoi, da quando, in un’estate più torrida di quella, da Granada portavano cadaveri tutte le notti, cioè uomini, e anche qualche donna, che erano già cadaveri senza saperlo, e appena scendevano dal camion e sorgeva l’alba e venivano allineati sull’orlo delle fosse subito lo diventavano, per davvero. Là sotto era pieno di cadaveri.
Si moriva per molto, si moriva per poco, per l’impronta del calcio del fucile sulla spalla, per aver lasciato tracce di poesia sulla carta. Per invidia e per vendetta, per proclami e per calunnie.
Il contadino si faceva gli affari suoi, e perciò non aveva risposte per le domande del fiscal, ma gli rimaneva la rabbia di pensare: prima li ammazzate e poi fate le inchieste, arrangiatevi. Vicente Reyes Montero stavolta non sfoggiò la patente di pubblico ministero, né i poteri conferitigli dalla più alta carica della Magistratura dello Stato. Curioso, rifletteva già da qualche giorno, tutta questa sollecitudine per un’esecuzione di trent’anni fa, una fra le tante, troppe. Quanti Paco, quanti José, quante Carmen, quante Concha. E se dovessimo indagare su tutti questi morti… ricostruire il perché della loro morte squarcerebbe il velo sul mistero della loro vita, e allora… allora tutto non sarebbe più così semplice, la verità di qua, l’errore di là, i buoni di qua, i cattivi di là, o peggio: là sotto.
Là sotto, finiranno là sotto, nella fossa spalancata che li aspetta, un poeta, un maestro e due toreri. C’è un prete per favore? Non c’è bisogno di preti per i diavoli.
Eppure il mistero di quell’inchiesta, un’inchiesta di conferma per metterci definitivamente una pietra sopra, e non un’inchiesta da scoperchiar le tombe, l’enigma finto che aveva strappato Vicente Reyes Montero dalle nuvole atlantiche della sua Galizia per scaraventarlo nell’Africa andalusa, non era un qualunque Pablo, ma un distinto Federico, una celebrità che non poteva sparire così.
Hai fatto più male tu con la tua penna, che tutte le altre canaglie senzadio.
Erano trent’anni che andavano avanti a scantonare, quelli che comandavano: sono stati gli altri (insostenibile), sono stati quei pervertiti dei suoi amici (ridicolo), e va bene, sono stati gli incontrollabili che stavano dalla nostra parte, quei giovani insolenti in camicia azzurra (comodo). Sembrava una risposta soddisfacente all’assillante interrogativo che il mondo della cultura faceva pesare come un macigno sul Governo dei vincitori: una mezza verità, ammettiamo che è successo per colpa (per colpa giuridica cioè: negligenza, imperizia o imprudenza), per colpa nostra, ma gli assassini sono stati quelli là, che poi abbiamo aggiustato subito…
Un poeta, un maestro e due toreri, allineati su un orizzonte rosso, intorno a loro lamento di grilli, davanti i loro carnefici, distintivi dissonanti appuntati sulle uniformi assortite e perciò difformi, dove l’azzurro delle guardie si confonde con le camicie dei civili e con il sospiro di una notte che si sta spegnendo… Ma che importa, che differenza può fare una sfumatura di colore per chi muore…
Vicente Reyes Montero non sfoggiò patenti e carte bollate, non minacciò nemmeno l’intervento della Guardia Civil per l’ennesimo, testardo rifiuto del contadino. Ora sembrava soddisfatto, come chi ha scoperto un segreto e ha capito, finalmente, e di menzogne ne ha piene le tasche, ormai.
Una sciocchezza a pensarci bene, un distintivo, un testimone ricordava un distintivo, e da un distintivo di stoffa saltano fuori parecchie cose, cose che per un magistrato fanno parecchia differenza, se è capace di avvalorarle con interrogatori e verifiche, confessioni e memorie, fino ad incamminarsi su un sentiero che porta là dove nessuno è ancora arrivato, là dove la verità aspetta da trent’anni, là dove crolla l’innocenza di un mondo che non l’ha mai avuta.
Un poeta, un maestro e due toreri, allineati su un orizzonte rosso, in un campo fremente di grilli. Poi il lampo accecante e lo schianto che cancellano tutto nel silenzio di un’alba senza giorno.
E gli usignoli si camuffarono da novembre, per non destare sospetto.
Il vecchio fissò il fiscal con i suoi occhi acquosi che sembravano brillare di un sorriso che le labbra avevano dimenticato. Come se anche lui avesse capito, o avesse sempre saputo.
Avrete dei guai per questo, eccellenza. Potevate starvene tranquillo nel paradiso dei vincitori.
Il paradiso non è riposo, il paradiso è contro il riposo. L’ha detto un altro poeta che ammirava molto Federico, uno che aveva scelto la camicia azzurra.
Anche voi, allora…
Lo sono stato quando esserlo era qualcosa di molto rivoluzionario. Ed ero anche molto giovane.
Il fiscal salutò piegando la tesa del cappello e si avviò giù per il viottolo, un po’ curvo, quasi gravato da un peso invisibile. Il vecchio si appoggiò al manico della zappa e come se avesse recuperato tutto il fiato di una fuga lunga trent’anni, gli gridò dietro:
E pensate di aver fatto una cosa rivoluzionaria, combattere per far vincere quelli là?
Non più, vecchio. Non lo penso più, disse l’altro piano, con la stanca lentezza di un’amara tristezza.
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ponti ::