Obama rockstar
Clip e politica
Tradizionalmente, gli esponenti della cultura sono democratici. Tradizionalmente, i democratici non riescono a inventarsi campagne elettorali in grado di battere quelle repubblicane.
Sta di fatto che all’inizio del 2008, in febbraio, il video voluto da Will.I.am dei Black Eye Peas ha iniziato a diffondersi viralmente, trasportando letteralmente nella testa di chiunque il già efficace e sfruttatissimo slogan “Yes we can”.
Non è stato il primo però: meno richiamo ha avuto la canzone American Prayer scritta da Dave Steward e da Bono, che traccia esplicitamente un ideale passaggio di ispirazioni da Martin Luther King a Barak Obama.
Ma se l’intento e il concetto alla base dei due video è simile, la resa è molto differente.
Entrambi i video posano la loro forza sull’esibizione di persone famose e conosciute, influenti sull’opinione pubblica, che, davanti alla più totale mancanza di scenario fanno la parte di loro stesse: sono persone, cittadini come chi li sta guardando, non recitano né fingono. Sono avvicinabili.
American Prayer però utilizza lo schermo televisivo come cornice dove mostrare immagini fisse e video di repertorio su Obama, King, l’America. In un certo senso questo allontana lo spettatore dalla materia raccontata: ponendo un filtro, comunicando attraverso una doppia cornice, l’identificazione si fa più difficoltosa, i fatti sembrano mediati, più irrealistici quindi.
Yes we can invece porta dritto negli occhi di chi guarda la voce, il corpo, il pensiero del candidato democratico.
Innanzitutto non è una vera e propria canzone, ma sono le parole stesse di Obama a venire declamate dai cantanti e dagli attori. In pratica, il discorso (musicale come si è tante volte letto sui giornali, ma sempre un discorso politico) si trasforma in un canto con la stessa fondamentale conseguenza di un film che diventa musical.
La storia diventa dramma, teatro e azione allo stesso tempo; quello che era già messa in scena, cioè lo spettacolo oratorio, si amplifica frazie all’enfasi melodrammatica della musica e del canto. Un po’ come accade nell’opera lirica.
Nessuna cornice a chiudere la figura del candidato, ma le riprese del discorso tenuto nel New Hampshire sono inserite nel video come se Obama fosse davanti alla stessa macchina da presa che inquadra gli artisti. Come a dire che il democratico è davvero lì davanti in quel momento, come lo era stato dal palco quel giorno.
Anche i sordi possono capire le sue parole (Marlee Matlin viene inquadrata mentre parla con il linguaggio dei segni) perchè basta la sua immagine a raccontarne il personaggio e i valori: vicinanza a tutto il popolo americano – e nel video compaiono tanti bianchi quanti neri – possibilità di cambiamento, speranza.
American Prayer risulta quindi semplicemente meno diretto, più concentrato sui volti delle star che su quello della vera star, Obama. Risulta meno enfatico ed emozionante: e un videoclip – come una campagna elettorale – basa la sua forza proprio sull’emozione che riesce a suscitare.
A cura di Francesca Bertazzoni
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