Le domande e i film visti ora si accavallano, spingono verso l’uscita e si fondono come in un film di Miyazaki. Qualcuno se ne va già, ma le sale della Mostra sono già da qualche tempo quasi, dico quasi, vuote. Stamattina la forza di Aronofsky ha spazzato via tutto e rimane la voglia di riparlare e rivedere The wrestler: non c’è messa in scena di un corpo che è da solo la narrazione di se stesso come quello gonfio e impastato di Mickey Rourke.
Dopo gli anni passati sul ring come pugile professionista, l’attore sex symbol degli anni ’90 torna a incarnare un personaggio. È una rinascita in un certo senso, dato che con Sin City era rimasto nascosto sotto il bianco e nero e sotto la computer graphic da fumetto.
Anche qui Ram potrebbe essere scambiato per un fumetto, se non fosse per il suo corpo, gommoso e massiccio, gonfiato e sanguinante che sta irrimediabilmente sotto l’occhio del regista, che lo cattura e non lo lascia andare. È nudo e non c’è proprio più nulla da nascondere: nè la faccia sfregiata che Rourke ha dovuto ricostruire, nè le labbra gonfie di silicone, nè i tatuaggi, nè i pettorali sodi e le chiappe che iniziano a cadere. Nè la solitudine di un uomo di spettacolo, nè il dolore della vecchiaia, nè il desiderio di ricominciare ad esibirsi. Che sia come sia, ma quando un artista si mette in scena e si racconta raccontando altro, crea qualcosa di prezioso. E se lo fa con il proprio corpo, quasi immolandosi agli occhi di chi lo guarderà, è come se si liberasse di qualcosa. Del peso del cinema anche.

Domani me ne vado dal Lido. Stanotte nessun film, e un po’ mi dispiace: ormai mi ci ero abituata. Alla fine, dieci giorni qui sembrano quasi pochi.

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A cura di Francesca Bertazzoni
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