Com’è labile il confine
«Il giaguaro ci attacca, ma è nostro fratello. Il cobra ci attacca, ma anche lui è nostro fratello. La mucca occupa la nostra terra, è una nemica». Si può riassumere con le parole dello sciamano il senso della lotta disperata intrapresa dagli indios del Mato Grosso, in Brasile. Disperata perché condotta non contro un altro popolo, ma contro un tipo di civiltà invasiva al cui fascino autodistruttivo è difficile restare immuni. Il film inizia con una sequenza splendida, mettendo a nudo l’ipocrisia e l’ignoranza mutuate dal turismo sul tema delle culture autoctone: una barca di turisti guarda sulle rive del fiume alcuni indios, che li osservano immobili con lo sguardo duro e lanciano qualche innocua freccia. Subito dopo, il trucco si svela e compare il reale motore di quanto appena visto, il denaro.
Relegati dal governo in una riserva, il gruppo dei guaranì capeggiati da Nadio viene pagato per interpretare se stesso agli occhi dei ricchi turisti, un business parallelo all’attività dei fazendeiros. Già dopo pochi minuti la questione è filmicamente impostata con un’evidenza che va precisandosi nell’immagine delle due indie suicide, che forniscono lo spunto narrativo, se ancora ce ne fosse bisogno, per far partire il film e con esso la rivolta della comunità. Da quel momento in poi, tutto corre sul labile confine tra la terra coltivata della fazenda (la terra che fu degli uomini rossi, la terra che loro rivogliono) e l’accampamento dove la tribù si stanzia come punto di riconquista. Sul labile confine tra due civiltà che sembrano non poter in alcun modo convivere ma che, a livello della primordialità delle pulsioni umane si somigliano, s’incuriosiscono l’una dell’altra, si relazionano, come il giovane futuro sciamano Osvaldo con la giovane figlia dei fazendeiros, finchè il conflitto insanabile tra chi si nutre della foresta e chi della sua distruzione emerge in un grido di dolore.
In una sequenza di straordinaria efficacia, vediamo uno dei giovani indios entrare in un negozio di scarpe da ginnastica e guardarle affascinato: in un modo subdolo e indicibile, gli sarà fatale. Su questo metaforico confine tra due mondi, sul confine tra documentario e fiction, scorrono le immagini cariche di senso del quarto lungometraggio di Bechis, accompagnando gli indios guaranì nella lotta per il possesso della foresta in cui cacciare e procacciarsi il cibo, la stessa foresta in cui i giovani s’impiccano incapaci di riconoscersi in un’identità che gli viene sottratta giorno dopo giorno, la stessa foresta in cui si aggira lo spirito inquieto di Anguè in cerca di corpi e anime da occupare finchè qualcuno ha il coraggio di dirgli “oggi ho vinto io”.
Curiosità
La musica originale è di Andrea Guerra, ma sono state riprese anche le musiche di Domenico Zipoli, un missionario e un compositore del ’700 che le scrisse lì e le fece interpretare dai guaranì, ritenendoli migliori degli occidentali.
A cura di Antiniska Pozzi
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