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cultura dell'immagine e della parola

Venezia, Violet Hill
3 settembre

Una scena di Il primo giorno di notteOggi nelle mie orecchie suona una nuova musica, aggressiva e malinconica come l’ultimo album del Green Day, American idiot. Le visioni di oggi mi portano dentro la rabbia e l’amore per la vita, così intrecciate da eccitarsi a vicenda. Ho voglia di gridare e giudicare, di capire dove diavolo posso mettere il mio corpo e i miei occhi, come trovare il modo giusto di guardare i film, quale deve essere l’onda giusta contro cui spaccarsi.

Sono state proprio le spiagge, il mare, come dice Agnès Varda, l’orizzontalità perfetta dell’orizzonte che divide l’acqua e il cielo. Non si può abbracciare tutto, guardare è l’unico gesto possibile, che a volte mi lascia impietrita, con la voglia di spingermi più contro ciò che vedo.
Les plages d’Agnès è un film che accade quando un artista sente l’arte nella sua vita, quando un cineasta possiede la capacità di raccontare la vita, la propria, mettendosi in scena come un’opera d’arte. Qualcuno dice "un testamento", a me pare quasi un documentario: trascrizione cinematografica di un intimo reale. E della storia, della politica, del cinema, della musica.

Anche Demme documenta con Rachel getting married, ancora una volta qui a Venezia dopo il bel Man from Plains sulla vita di Jimmy Carter. La macchina da presa del regista entra dentro una storia e la fa vivere: due sorelle, una famiglia raggelata e schiacciata, una storia di egoismi profondi, del dramma della droga, delle ambiguità sottili di cui si compone l’amore: amicizia, sesso, fratellanza, perdono, bisogni taciuti, desideri gridati. Demme si intrufola vicino ai suoi personaggi e li fa sembrare reali, inserisce la musica in presa diretta e ti fa risuonare le orecchie di note sporche, brutte. Così è la vita, viene da pensare. Brutta, imperfetta.

Ad un certo punto dimentico se è giorno o sera, dentro il buio della sala, dove sono sempre, è perennemente un altro luogo e un altro tempo. Non esiste quasi più un fuori.
Come accade al protagonista del, voglio giudicare, quindi lo dico, bellissimo (parola sterile d’altra parte) film di Mirko Locatelli, Il primo giorno d’inverno: non mi interessa se è imperfetto, se alcuni movimenti di macchina sono brutti (?), se l’attore ha una voce strana… Locatelli parla di adolescenza, forse di bullismo, di omosessualità, ma soprattutto mostra un’età limnale, dove il corpo e la sua rappresentazione sono in grado di diventare significato.
Il protagonista guarda il suo corpo, lo scruta, lo impasta per crearlo con le sue proprie mani. Si sta leggendo, nella pelle e nei muscoli, per capire cos’è, com’è. Chi è. Recita con il corpo ancora chiuso, teso, il volto abbassato e la luce che invece di mostrare nasconde. È in fuga e contemporaneamente dentro una ricerca drammatica di sè.

L’adolescente è anche colui che scrive sul suo corpo per renderlo leggibile, per darsi un carattere, un altro modo per mettersi dentro la vita, affermandosi. Ed è doloroso, per certi versi un gesto passivo, ma plateale: tutti possono leggerlo.
E il potere della scrittura: il protagonista brandisce come un’arma il pennarello con il quale minaccia di rivelare l’identità sessuale di due compagni: la sala lo ha trovato ridicolo, la sala ha riso. Ma la scrittura è un’arma, pronta a scoprire l’identità di chi ancora si nasconde, di chi ancora non può riconoscersi ad uno specchio: è un gesto osceno e mortale.

Chi brucia e chi annega

Annega
Rimane senza aria nei polmoni chi ha già un’opinione dopo cinque minuti di film. Chi si autocelebra appena finito il film vaticinando le sue verità. Chi non sa essere indipendente. Chi, perchè è un giornalista famoso, arriva all’ultimo minuto. Chi scrive dei film senza averli visti. Chi viene a Venezia e pensa che la dimensione di un bagno in casa sia importante.

Brucia
Fanno scintille e si consumano nella gloria del vulcano, su una collina che non è più viola, ma rossa ormai, tutti i film che potrò mai vedere nella mia vita. Quelli della Venezia della mia prima volta e quelli di questa mia seconda. Gli oggetti e i cibi di Tezla dove ho trovato le tazzine del caffè di mia nonna, l’injera e lo zighinì di cui conosco bene il sapore. I registi che mettono la loro vita nel loro cinema e mi permettono di vedere. Sia la loro vita che il loro cinema. Demme che arrossisce agli applausi della sala stampa. La sabbia e il mare del Lido, che non vedo, ma che posso sentire sempre con il naso e con le orecchie.

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