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Intervista a Marco Bechis

Presentato alla Mostra di Venezia, Birdwatchers è il nuovo lungometraggio di Marco Bechis a sette anni di distanza da Figli – Hijos. Ecco come il regista italo-argentino ha risposto ad alcune domande sulla produzione del film.

Come hai iniziato ad avvicinarti ai temi degli Indios?

Mi interessava il “problema dell’altro” che Todorov aveva analizzato profondamente in un suo libro omonimo. Enrique Ahriman, mio amico e maestro, a cui dedico l’intero film, mi suggerì di leggere Yanoama, la storia-intervista a Helena Valero, una donna rapita dagli indigeni e vissuta tra loro per trent’anni, una specie di Tarzan al femminile. L’anno dopo, era il 2003, feci un lungo viaggio lungo la cordillera delle Ande, tra le comunità indigene di Perù e Ecuador: a bordo di un piccolo aereo, insieme a un gruppo di birdwatcher, arrivai fino all’Amazzonia, in un villaggio di Ashuar, una tribù entrata in contatto con l’uomo bianco solo quarant’anni prima. Di ritorno a Milano, scrissi di getto una sceneggiatura sulla vicenda di Helena Valero e preparai il primo viaggio di sopralluogo.

Com’è stato poi il primo contatto con gli indigeni?

Misi in borsa una macchina fotografica 35mm, un taccuino, un registratore audio e partii con Caterina Giargia (scenografa e costumista) per Dourados, una delle città principali della regione, moderna e ricca, centro della produzione di soia transgenica targata “Monsanto”. Mi sembrava essere arrivato sul set di
Twin Peaks di David Lynch. Alla stazione degli autobus ci aspettava Nereu Schneider, avvocato, che da vent’anni si occupa della difesa dei Guarani-Kaiowà. Nereu ci portò a conoscere le comunità indigene della regione. La prima che visitammo fu quella di Ambrosio, che sarebbe poi diventato attore protagonista del film (Nadio). La sua vita, segnata dal degrado nella riserva di Carapò, dallo scontro quotidiano con i fazendeiro, dalla decisione di occupare una fazenda sorta una sessantina di anni prima sulle terre indigene, segnò la traccia della sceneggiatura che stavo incominciando a scrivere. Quella di Ambrosio era una vicenda esemplare. Cinquecento anni dopo la Conquista, il conflitto era lo stesso, cambiato nei modi ma non nella sostanza. Il film che volevo fare aleggiava in quei luoghi.

La scelta di avere attori non professionisti com’è arrivata?

Sapevo che film volevo fare, ma non sapevo come farlo, con quale linguaggio cinematografico, con quali stratagemmi. Il problema principale era proprio la scelta degli attori: quali attori professionisti avrebbero potuto interpretare quelle storie?
La risposta arrivò fulminea un pomeriggio, durante una riunione con alcune autorità del governo: gli uomini e donne indigeni che parlavano a gran voce con le autorità di Brasilia, possedevano un’arte retorica sofisticata, sapevano parlare in modo convincente e controllavano le parole e il corpo in modo sorprendente. Avevo trovato gli attori. Da quel momento in poi ho sempre saputo, con assoluta certezza, che il film sarebbe divenuto realtà solo se fossi riuscito a fare di quegli indigeni gli attori protagonisti del film. Senza di loro, il film non avrebbe avuto senso. Nella comunità di Ambrosio c’era un giovane indigeno di nome Osvaldo. Gli chiesi se gli interessava fare l’attore in un film, “Cosa vuol dire fare l’attore?” mi rispose lui. Gli spiegai allora che significava rappresentare un personaggio, che bisognava imparare a recitare. Ci pensò un secondo e disse: “Ma io recito già tutti i giorni…”, “E quando?” domandai stupito, “Tutti i giorni, quando prego” fu la sua risposta. I loro rituali sono rappresentazioni teatrali, manifestazioni e con Ñande Ru, il loro Dio. Recitare fa parte della loro cultura millenaria.

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