Playstation al cubo
Caleidoscopio di colori. Tripudio di effetti visivi. Bolo metacinematografico in salsa pop-culture. Delirio lisergico. Ostentazione del iper-kitsch. Il critico cinematografico ha per le mani un oggetto altamente manipolabile e fortemente catalizzatore di teorie intrise di postmodernismo quando si pone all’opera nello smontare e analizzare un film come Speed Racer, l’ultimo dei fratelli Wachowski, ispirato da una serie animata di produzione nipponica che solo gli over trenta possono ricordare, non senza sforzo (Mahha GoGoGo, nota in Italia come Go Go Mach 5) opera di Tatuo Yoshida, autore di cult del calibro di Yattaman e Robotech. I Wachowski, in base alla loro età anagrafica, devono aver trascorso la loro infanzia facendo merenda davanti alla televisione mentre veniva trasmessa la serie di Yoshida: non ci sono altre giustificazioni per un omaggi di siffatte proporzioni. Il meccanismo narrativo è semplicissimo: un corridore provetto per scuderia a gestione familiare, orfano di fratello maggiore, rifiuta offerta di multinazionale/mafia delle corse ma vince lo stesso, con aiuto di misterioso corridore mascherato. La banalità della trama è funzionale alla profusione di effetti speciali, che immergono i protagonisti in carne e ossa in un mondo ostentatamente di stampo cartoonesco. Nulla ha infatti una consistenza fisica, tutto appare saturo di colore, assente di peso e consistenza e slegato da ogni tipo di legge fisica (la forza centrifuga e l’attrito non sembrano esistere nel mondo delle corse di Speed Racer).
Se, nella trilogia di Matrix, i Wachowski avevano lavorato sulla de-materializzazione del corpo dell’attore, trasformandolo in pixel e impulsi elettrici all’interno di un immane software, in Speed Racer accade esattamente il contrario. Il corpo umano è l’unico oggetto reale all’interno di un delirio visivo che fonde l’estetica dell’animazione con la tecnologia delle moderne consolle casalinghe in cui i videogiochi trasformano sempre più la quotidianità in una versione noiosa dell’esperienza ludica. L’elogio della velocità a Mach 5 (ovvero cinque volte la velocità del suono) si trasforma però in un giocattolo ipertecnologico e costosissimo in cui viene tralasciato l’elemento più importante. Non bastano lunghe sequenze di gare automobilistiche a tutta velocità per generare adrenalina nelle ghiandole surrenali degli spettatori. L’esperienza del videogioco si esprime nel momento dell’interattività, quando l’utente è virtualmente alla guida di bolidi ipersonici. In Speed Racer l’elemento interattivo viene a mancare e l’eccessiva semplicità della trama non coinvolge lo spettatore, a eccezione degli under 10, capaci ancora di essere affascinati da una girandola colorata spinta da una bava di vento e, soprattutto, di immedesimarsi nella figura del piccolo Nicholas Elia, grande tifoso del fratello maggiore Speed (un Emile Hirsch tornato troppo presto dalle terre selvagge dell’Alaska) e amico per la pelle con uno scimpanzè più umano di tante altre comparse.
Il film è tutto qui. Se lo spettatore è in grado di spegnere il cervello e di involvere per oltre due ore in un moccioso di 10 anni, il gioco può anche piacere. Per il resto può generare solo masturbazioni mentali nella testa di chi ancora crede che i Wachowski siano i “geniali creatori” di Matrix (The Matrix, 1999) e fanno finta di non averne visto i due seguiti e il morboso thriller lesbico Bound (id., 2006). Vedere per non credere.
A cura di Carlo Prevosti
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