Se la sua chitarra piange dolcemente
Stefano Nardini (Valerio Mastandrea) è una stella. Bruciata. Ha tutto il talento sprecato di chi ha perso una scommessa importante con la vita e ora si ritrova a inseguire i cocci della sua scia luminosa. Senza un amore, sfrattato dal suo stesso ego pervaso di malinconia e rancore con il mondo intero, finisce tra i suoi familiari con la speranza che questo possa essere l’inizio della risalita. Ma la strada è sempre quella, non basta cambiare le geografie per evitare i dossi e le curve pericolose. Quella stella ha la punizione della sua scia e il resto è solo una grigia fotocopia della persa luminosità. Ma Stefano, professione punk-rocker, ritrovatosi improvvisamente imprenditore di ciliegie sottospirito (che a vederlo lavorare, ricorda Charlie Chaplin dei Tempi Moderni), ha un pregio.
In un mondo di lentezze e falsità, non ha dimenticato il valore della velocità. Velocità materiale di una corsa in auto che non ha il piacere di una meta, ma gode esclusivamente della sua infinita e smisurata genuina ripetitività (non si può non adorare, a tal proposito, la scena delle sgommate di Stefano). Velocità che, come libertà, non ha bisogno di tabelloni elettronici per essere quantificata e che per essere pura va consumata piano, al ralenty. In attesa del tuffo finale. Del vuoto che ti raccoglie. Non pensarci è una commedia perfida perché ci ricorda quegli spettri che la notte i benpensanti lasciano fuori casa, per dormire sogni tranquilli. È una commedia realistica perché l’Italia, oggi, è proprio quella del film di Zanasi. È soprattutto una commedia vera, di quelle che non hanno bisogno della volgarità per far ridere ma rappresentano onestamente la tragicomicità della verità che ci circonda. Il film è scritto bene ma ciò che colpisce più di tutto è la bravura degli attori, Mastandrea e Battiston su tutti. Il disagio delle loro esistenze non passa solo attraverso l’acidità dei dialoghi ben costruiti (un vero miracolo nel cinema nostrano) ma dall’impaccio dei loro corpi, dall’immobilismo delle loro espressioni colte nel raggrinzirsi inevitabile dei volti.
Nel film d’un tratto si ascoltano le note di una canzone dolce e, allo stesso tempo, amara: è “Agnese dolce Agnese”, anno 1979, del compianto Ivan Graziani: Se la mia chitarra piange dolcemente / stasera non è sera di vedere gente. Basta un po’ di attenzione per capire che tutto (o comunque gran parte) del senso del film risiede in queste parole musicate. Paradossalmente Nardini, il protagonista, cerca gli altri, cerca le sue origini, la compagnia dei suoi familiari per rovesciare l’inquietudine che lo condanna alla solitudine. Ma dopo tutto, questa stessa compagnia non è che il sinonimo di una solitudine amplificata, nera condivisione di altre solitudini inguaribili. Di tutto ciò, dell’ipocrisia del viaggio e del senso di velocità perpetuamente negato, non resta che il muto cercare tra i vetri appannati di un auto il cenno di un saluto. È l’inevitabilità del ritorno. La garanzia che stai già ripartendo. Che alla fine è meglio così. Stasera non è sera di vedere gente.
Curiosità
Un’altra delle note positive del film riguarda la colonna sonora, realizzata da interessanti gruppi dell’attuale scena indie italiana. Stiamo parlando dei Merci Miss Monroe, autori dei brani D e A Scratchy Wed, dei Les Fauves autori di February Lullaby e degli Atomic Dog presenti con Black P.
A cura di Giuseppe Carrieri
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