Triangolo molle
La creazione, il creatore e la creatura sono tre figure che hanno spesso coinvolto e condizionato il cinema di Sergio Rubini. Un cinema fatto di alti e bassi, che a volte ha pagato troppa sincerità e ingenuità e che altre volte, invece, ha stuzzicato la fantasia per la sua semplicità. Un cinema che spesso ha avuto come sottofondo il rapporto tra creatore e creatura come dimostrava già la favola surreale L’anima gemella (2000), dove tragico e melò si mescolavano al fantasy e al giallo e dove da una piccola e insignificante credenza paesana si generavano dubbi, misteri, sensi di colpa, equivoci e scambi di personalità. Ancora di più, forse, questo rapporto tra creatura e creatore era evidente nel simpatico e malinconico Tutto l’amore che c’è (1998), commedia dal retrogusto amaro che risaltava le differenze sociali tra nord e sud, oppure nel dramma corale di L’amore ritorna (2003), film che partiva dalla crisi artistica di un attore e che arrivava a una crisi esistenziale e morale di un uomo. Anche La terra (2005) si giocava molto sull’importanza delle origini, sul rapporto tra consanguinei e sul valore della sincerità dell’uomo senza però andare oltre la superficialità.
In Colpo d’occhio Rubini, che torna a lavorare con la coppia di sceneggiatori Pasquini-Cavalluzzi, già sceneggiatori di La terra, sembra voglia tracciare ancora una volta il duplice percorso morale e artistico dell’uomo. Da una parte racconta i gradini che l’uomo (artista una volta, emigrante un’altra volta) è pronto a scalare per arrivare in vetta (il suo cinema, infatti, sembra essere una continua riflessione dedicata alla scala sociale, alla voglia di arrivare), dall’altra si sforza di rappresentare il rapporto tra finzione e realtà dal quale l’uomo rimane spesso schiacciato. Colpo d’occhio è un film di genere e, forse, questo giustifica la sua natura dichiaratamente finta. È un gioco al rimbalzo, un labirinto di inganni, luci e ombre che si sovrappongono e che dimostrano l’abilità del narratore Rubini, quello che spesso ha fatto vedere di essere un regista, quantomeno, originale. Una buona dose di sperimentazione che appare incontrollata e sopraffatta dalla questione amorosa, dal triangolo di passioni e tradimenti e, soprattutto, dal volto degli attori (lei è la Puccini, lui Scamarcio), dalle recitazioni marcate, dalla troppa voglia di andare oltre. E qui sembra di rivedere le ingenuità di La terra. E sembra di ripensare alle stesse cose. Anche perché creatura e creatore nel loro percorso tortuoso di creazione, ogni tanto, hanno bisogno di separarsi per un po’ di tempo. Così da ritrovarsi con più voglia e lucidità.
Curiosità
Ha detto Rubini: «La razionalità del regista e l’irresponsabilità dell’attore sono due “modi d’essere” che a fatica coesistono – a meno che non ci sia un’inclinazione di tipo schizofrenico… In passato ho cercato di ritagliarmi ruoli che fossero sempre più piccoli per sottrarmi a questa malattia. Questa volta mi è andata male: Lulli è un personaggio molto presente nel racconto e per di più complesso».
A cura di Matteo Mazza
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