Pollice verde opponibile
Ogni scrittore ha una sua originalità, una stranezza distintiva. Il modo di vivere, il modo di scrivere, il modo di arrivare ai lettori. Nell’esperienza di Vincenzo Pardini, al contrario, si fatica a trovare qualcosa di non originale, qualcosa di comune, che lo ponga nella media, nella norma (dei suoi colleghi), in cui probabilmente non vuole essere. I suoi personaggi, a due o a quattro zampe o dotati di radici e foglie, e la sua esperienza quale autore appartato lo avvicinano alla figura di Mauro Corona, ai suoi temi, alla stessa percezione della realtà, còlta con il pollice verde verso l’alto.
Il pollice di Pardini, oltre che verde, è anche opponibile. Sa, infatti, costruire un dialogo con la natura. Non ci lotta contro, non si impegna in scontri romantici. La mette seduta e ci conversa. Per Pardini, che vive nella valle del Serchio (Appennino toscano), uomo e natura sono più che possibili insieme. Dovrebbe, piuttosto, essere la regola.
L’uomo, preso nelle occupazioni umane primarie – amore, guerra, lavorare la terra – trova spesso rifugio nella natura lussureggiante dei racconti. Si muove come un Adamo nel giardino dell’Eden: spaesato e affascinato a un tempo; nudo e indifeso, suddito e allievo. Pardini intaglia due facce nel dialogare con la natura: con una, bucolica, assume fattezze da San Francesco, portatore di armonie universali; con l’altra, serpe (ancora) nel giardino della Creazione, invade gli ameni luoghi con usi e (s)costumi (sessuali, spesso) di una modernità grezza, viscerale, primitiva. Eppure, con piante e animali, l’uomo di Pardini si pone in parità. Crea anche più di uno scambio con loro: inventa linguaggi, tenta personalizzazioni.
In questo ambiente, trovano ragione la fluttuazione temporale dei racconti, degna del miglior Benni, e una lingua deliziosamente espressiva, che rappresenta forse la più pregiata dote del libro. Pardini, infatti, guardando al rassicurante e ricco serbatoio dell’italiano, ha sviluppato una capacità oggigiorno rara: creare dal “vecchio” qualcosa di nuovo. Inquadrature sulle situazioni, accostamenti di termini, usi dei verbi sono del tutto sorprendenti. Così ci arriva una lingua piacevolmente estemporanea, con immagini folgoranti, pronunciate con una schiettezza fresca, elementare, quasi trasandata. Una lingua colorita, con ascendenze nelle fiabe regionali, nel dialetto, fonte linguistica notevole ma bistrattata, e nell’Eugenio Montale delle piante dai nomi “difficili”, come bossi e ligustri. La natura, in ultimo, per Pardini, è infatti qualcosa di “nobile”, da nominare come si conviene, ricordando tavole botaniche, poesie (I limoni, appunto) e un’autenticità contadina, vitale, troppo spesso andata perduta.
L’autore
Vincenzo Pardini vive e scrive appartato dai grandi numeri e dalla frenesia della grande editoria italiana. Rasoio di guerra è uno dei suoi libri più importanti. Fu pubblicato per la prima volta nel 1995 dall’editore Giunti, nella collana “Mercurio” diretta da Enzo Siciliano. Recentemente Sandro Veronesi ha detto di lui: “Pardini è un maestro, nel senso di ‘mastro’: per come usa lo strumento, per come è in grado di inclinare improvvisamente la pagina, sfaccettarla, imprimere accelerazioni e aprire squarci nella frase”.
A cura di Stefano Aldeni
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