La storia di Luigino
C’è da chiedersi come mai ogniqualvolta Hollywood produca un film che ha a che fare con la storia, tutto ci si debba aspettare tranne che una minima fedeltà alla storia stessa. Naturalmente andare a vedere 10.000 A.C. non è la scelta di uno storico che voglia approfondire la propria documentazione, come del resto raramente accade per altri film. Ma provate ad abbandonarvi all’immaginazione, e scoprirete l’enorme potere destabilizzante che si cela sopito tra le pieghe della pellicola.
C’era un bambino di 8 anni, a cui la maestra a scuola aveva appena spiegato l’evoluzione dell’uomo, e di come il mondo di tanti anni fa fosse assai diverso da come lo si vede oggi. Al bambino erano sempre piaciute le storie e le grandi avventure, e per questo la più grande di tutte, quella dell’umanità, lo aveva rapito completamente. Notandolo, la mamma aveva deciso di portarlo al cinema a vedere un film che, ne era sicura, lo avrebbe lasciato letteralmente a bocca aperta. Detto, fatto. Esaltato come non mai, l’indomani il bambino andò a scuola, dove lo attendeva un’interrogazione su quanto gli era stato spiegato: sicuro di sé, il bimbo rispose parlando di quel periodo in cui delle tribù nomadi pre-rastafariane scesero dalle montagne all’inseguimento di uomini domatori di cavalli, armati di spade affilate, vestiti come vichinghi e come vichinghi abili navigatori. Raccontò di come in pochi giorni a piedi gli uomini passarono dai ghiacci alla foresta tropicale, dove minacciosi e agili pennuti giganti tendevano agguati giurassici; con la foga di cui solo un bimbo può essere dotato, si infervorò parlando di come, sempre a piedi, i rastafariani raggiunsero il deserto, dove entrarono in rispettosa armonia con l’ultima tigre dai denti a sciabola, che si andò a estinguere un poco più in là, diventando vegetariana. E infine parlò di come, unendo tutte le tribù africane, il leader dei rastafariani arrivò alle piramidi costruite dai mammut, lanosi ma non affaticati sotto il sole a picco; di come qui un gruppo di bonzi crudeli perpetrava sacrifici umani in onore di un dio albino ma anche un po’ Maya; e di come tutti i popoli del mondo si ribellarono alla schiavitù, sacrificando il bene più prezioso, ovvero la vita della donna-oracolo, predestinata dalle stelle, che però risorgerà grazie all’intercessione dell’anziana sciamana pellerossa del villaggio di montagna.
“Bene Luigino, a posto con insufficiente, e domani voglio vedere la mamma! E non ti inventare mai più storiacce del genere…”
E a ben guardare, questa sarebbe stata la risposta da dare a Roland Emmerich prima di finanziarne il film. Prevedibile nel bene, imprevedibile nelle sorprese negative, il film ha solo un pregio, anzi due: il viso di Camilla Belle da un lato, e la fugace sensazione, per qualche minuto iniziale, di assaporare uno spirito di maggiore comunione con il pianeta Terra e le sue creature, tra le quali a lungo noi siamo stati, e dopo tutto ancora siamo, solo un incidente di percorso, o un pasto fast food.
A cura di Enrico Bocedi
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