Continua a riprendere
Il genere horror da anni stagna in una palude narrativa malsana, annaspando alla ricerca di ossigeno e sopravvive succhiando la linfa dei modelli di riferimento che, a partire da Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper, 1974), sono stati vampirizzati innumerevoli volte. Una possibilità di riaffiorare sul pelo dell’acqua e non affogare nel già visto è offerto dalle continue evoluzioni tecnologiche che hanno segnato la storia del cinema. Ecco che negli anni Ottanta sono sangue finto, frattaglie e protesi di silicone a nutrire gli slasher più estremi, mentre negli anni Novanta è arrivata la flebo degli effetti digitali, ampiamente migliorati nel corso del decennio successivo, fino a raggiungere il bulimismo digitale di titoli sovraccarichi di effetti inutili. Nel nuovo millennio, complice le masturbazioni mentali scatenate dal successo mondiale di The Blair Witch Project (id., Daniel Mirick e Eduardo Sanchez, 1999), si è giunti alla consapevolezza che la simulazione della realtà è in grado di provocare reazioni assai più concrete nello spettatore, sempre che egli sia disposto ad accettare un patto implicito con il regista che sembra dire “ora devi credere che sia successo davvero”. Superato questo primo passo, operazione ben più complessa di quello che si possa credere, può avvenire una profonda adesione e immedesimazione dello spettatore nei confronti dei protagonisti sulla pellicola.
Il pubblico vede tutto attraverso una soggettiva mediata dall’obiettivo di una videocamera (accade così in Cloverfield, September Tapes, Contenders oltre che T.B.W.P.). Il filtro delle lenti ottiche è il vero motivo del misterioso fascino che questo tipo di pellicole possono scatenare. Già nel 1947 Robert Montgomery aveva girato Una donna nel lago (Lady in the Lake), tratto da uno scritto di Raymond Chandler, utilizzando un’unica ripresa soggettiva della protagonista. Proprio l’assenza di un filtro segnò il fallimento del film, non permettendo alcun tipo di immedesimazione con la protagonista della vicenda. Il pubblico non poteva vedere attraverso i suoi occhi senza coglierne il distacco. Dietro una videocamera palmare invece può esserci chiunque.
Queste premesse sono necessarie per comprendere come abbiano lavorato Plaza e Balaguerò, anche se lo spunto nasce dalla puntata X-Cops del serie X-Files, che a sua volta riprendeva il format americano di Cops. Una giornalista e un cameraman di una piccola televisione spagnola filmano una normale notte di emergenze di una squadra del Pronto Intervento di Madrid. L’intenzione è quella di filmare lo spegnimento di un incendio, l’assistenza durante un allagamento, magari il salvataggio di un gattino su un albero. La notte sarà invece densa di episodi spaventosi. Balaguerò e Plaza non brillano certo per inventiva né per capacità tecniche. La camera a mano è esasperata nella ricerca di una sensazione di verosimiglianza ed è in grado di sferrare pugni nello stomaco peggiori degli effetti slasher che insanguinano la seconda parte del film. Uscito con molto ritardo, sospettosamente dopo l’invasione del mostro di Cloverfield, Rec ha il pregio di non lasciare aperte mille domande (caratteristica che non necessariamente è un difetto per una pellicola di questo taglio), ma trova anche un finale capace di evitare la spiegazione di rito ma comunque di chiudere il percorso narrativo del film.
Curiosità
La casa di produzione spagnola Filmax ha già firmato un accordo con la Screen Gems, affiliata alla Sony, per una remake americano del film, la cui regia sarà affidata a John Erick Dowdle.
A cura di Carlo Prevosti
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