Rosso dark, sangue a fiumi
Tim Burton rimodella da sempre le forme del suo cinema. Il carattere distintivo, sovversivo, originale e innovativo dei suoi mondi e delle sue creature consiste proprio in questa continua ricerca e affermazione dell’autorialità all’interno di prodotti diversi e diversificati. Da una parte per sfidare la noia e raffinare la spinta creativa, dall’altra per celebrare, con il suo modo goffo, impacciato, misterioso e dolce, i diversi di cui si sente parte dalla nascita. L’ossessione per l’altra faccia della medaglia, gli altri punti di vista, quelli nascosti, è ben sviluppata in ogni suo film. Dall’eccentrico Pee-Wee’s Big Adventure (id., 1985) fino alle mirabolanti avventure de La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory, 2005), lo spettatore può ammirare in successione i codici visionari, le figure, i rimandi e le fonti di ispirazione di un cinema capovolto, sensibile e virato al negativo dove l’apparenza non è solo qualcosa che inganna.
Sweeney Todd, cineversione del musical che partorì Stephen Sondheim nel 1979 a sua volta ispirandosi alle vere cronache del ‘diabolico barbiere’ di Flat Street, ricalca perfettamente lo stile burtoniano fin dal titolo: nominale (come Frankeweenie, Pee-Wee, Beetlejuice, Batman, Edward, Ed Wood, Charlie) e duplice (come Edward Scissorhands, Ed Wood, Mars Attacks!, Sleepy Hollow, Big Fish, Corpse Bride). È un film che mette in mostra la disperazione e l’angoscia di personaggi emarginati amplificandone le sofferenze. Non più un solo emarginato, ma, a partire dalla storia di un grande emarginato, il barbiere Benjamin Barker, la ramificazione di successive disperazioni: Nellie Lovett, i bambini, la moglie e la figlia di Barker, il giovane amante e lo stesso giudice Turpin. Si rivede così l’ambiguità malinconica di Ed Wood e l’imperturbabile doppiezza di Bruce Wayne/Batman, caratteri che fanno di Sweeney Todd la trasformazione, il distacco dalla realtà, la nuova forma, la maschera di una presenza irrequieta e in ricerca (si spiega così la natura paradossale della vicenda nella quale tutti mostrano due facce, due versioni, due identità).
Alcune strutture, come l’incipit del film, scandito dalla tradizionale forza semantica dei titoli di testa (che come sempre rivelano e anticipano, non solo presentano), il flashback (altro grande segno rivelatore burtoniano) e il sogno, ricordano la solitudine di Edward mani di forbice (Barker è esiliato come la giovane creatura incompleta). I due, pur condividendo la potenzialità di un oggetto (la lama), intraprendono presto strade diverse.
Sweeny Todd esplode di libertà, forse, più di qualsiasi altro film di Burton (che da sempre racconta la libertà ma, in questa direzione, il titolo più significativo rimane Ed Wood) perché mescola le sfumature dark alle visioni distorte, i freak al romanticismo, la tragedia al comico, gli istinti bestiali al gusto per il grottesco. È un film in cui il sangue diventa protagonista immediatamente (ma il rosso è sempre stato un colore protagonista nel cinema del regista di Burbank, basti pensare al colore della bicicletta di Pee-Wee) più che in Sleepy Hollow (in cui la matrice cadaverica e orrorifica veniva dichiarata attraverso una testa mozzata che schizzava sangue su una grossa zucca arancione e, subito dopo, la cera usata per sigillare una lettera perdeva gocce simili al sangue).
Sweeney inganna, non spaventa ma illude, ammicca ma senza fregare. È dolce, nonostante la sua violenza, terribilmente amaro, per via della sua tragicità. La sovversione ultima, infatti, avviene durante la mutazione dei toni melodrammatici (tipici dell’universo burtoniano) in quelli tragici (mai del tutto affrontati) spingendo così Sweeney Todd ad amplificare la visione prospettica e graffiante del cinema di uno dei registi più geniali dell’epoca postmoderna.
Curiosità
Nei progetti futuri di Burton Ripley’s Believe It Or Not!, con Jim Carrey, il film d’animazione 3D Frankeweenie, ispirato al suo omonimo cortometraggio, e una nuova versione di Alice nel paese delle meraviglie.
A cura di Matteo Mazza
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