Ai confini della solitudine
Questa è una recensione molto difficile da scrivere. “Chissenefrega” direte voi. E avete ragione; siete capitati su questa pagina per sapere qualcosa di più su L’inafferrabile, non per sorbirvi i piagnistei del recensore. Però – insisto – questa è proprio una recensione difficile da scrivere. In un certo senso questo libro sta alla letteratura come Hideout sta al giornalismo: un manipolo di “esordienti” o “emergenti” (a seconda dell’età) freschi di studi si dota di un supporto mediale per darsi visibilità e con un po’ di fortuna piazzare il proprio carrarmatino in un piccolo stato periferico sulla mappa del grande Risiko della cultura contemporanea. Capirete quindi perché scrivere di questi “giovani scrittori Iulm” ci crea una certa difficoltà. Sembra un po’ di scrivere di noi stessi: manca la distanza critica che dovrebbe garantire l’obiettività. Chiarito questo, e paratomi giustamente il culo sia nei confronti del lettore che nei confronti dei curatori del volume, vi comunico molto schiettamente che questo libro, a mio modesto giudizio, è cosa buona e giusta. Il livello qualitativo della scrittura è buono, le storie sono ben costruite e il ventaglio tematico affrontato è abbastanza ampio e originale da accontentare un po’ tutte le tipologie del lettore, da chi apprezza il diarismo autobiografico tardo-adolescenziale (ma con ironia) a chi va in cerca di speculazioni filosofiche.
Nella postfazione al volume, il prof. Paolo Giovannetti, responsabile della selezione delle opere, individua nella complessità spesso esibita della costruzione letteraria, la cifra caratteristica di questa pubblicazione. Trovo che questo sia un ottimo segnale. L’attenzione che gli autori hanno dedicato al “come si scrive”, superiore per certi versi a quella riservata al semplice “che cosa si scrive”, mi sembra un punto di partenza rassicurante. Trattandosi di autori alle prime armi, quantomeno per ragioni anagrafiche, non può che rincuorare il fatto che praticamente tutti abbiano preferito proporsi come onesti artigiani piuttosto che autonominarsi artisti. Una scelta umile che lascia intravedere, per chi se la sentirà di andare avanti, l’inizio di un percorso di crescita i cui esiti – questa è la notizia più lieta – sono ancora tutti da scoprire. Il seme, comunque, è gettato. E il bello è che si tratta di un seme letterario che dovrà però attecchire su un terreno visivo, visto che attualmente la cultura imperante è quella dell’immagine (come ben sanno gli autori, che non a caso sono studenti del corso di “Televisione, cinema e produzione multimediale”). In questo senso, il fil rouge che lega questi otto racconti, tutti costruiti intorno a occultamenti, svelamenti o ostensioni del punto di vista – o dei punti di vista nei tentativi più ambiziosi-, apre orizzonti interessanti. Coerentemente con quanto scritto fino a qui, a noi non resta che “stare a vedere”.
A cura di Marco Valsecchi
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