Un secondo Medioevo?
Dopo Il declino dell’impero americano e Le invasioni barbariche, Denys Arcand chiude la sua trilogia riprendendo le fila del discorso e ripetendosi anche un po’. Il protagonista questa volta è Jean Marc, un grigio e anonimo individuo con una vita al limite del fantozziano. Arcand sceglie un qualunque impiegato ministeriale del suo paese per mostrare quanto sia forte, soprattutto nella specie umana contemporanea, la voglia di quei famosi 15 minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol. Ma attenzione, questo è soltanto il punto di partenza. La critica alla società contemporanea, tema portante degli altri due film di Arcand, si mescola qui al piano del sogno che il protagonista ogni tanto si concede e ne diviene la cornice e il filo rosso che collega il tutto.
Ma il sogno e l’immaginazione si rivelano essere solo il placebo degli alienati, dei vinti dalla fiumana degli eventi, degli inetti a vivere al fine di sopportare una realtà che procura soltanto sofferenza. Jean Marc ne è l’evoluzione contemporanea, è un “uno, nessuno e centomila”, disgregato in infinite identità diverse, reali e non, relativizzato, per scelta, in tanti se stesso. L’esistere diventa quindi instabile, un frammentario puzzle che si riflette nella forma della narrazione, bruscamente interrotta, così come la monotona routine del protagonista, da intramezzi di sogno. Il potere inebriante della fantasia in fin dei conti è soltanto una nuova dittatura, una trappola, anche quando assume le sembianze attraenti di Diane Kruger e soddisfa aspirazioni di vanagloria e rivalsa perché è pur sempre segnata da venature di malinconia e dalla consapevolezza della propria impotenza reale. L’alienazione e l’evasione dal presente riguarda in realtà l’intera famiglia di Jean Marc, schiava di mezzi tecnologici come cellulare, i pod e videogame così che i membri si trovano ad essere compresenti nello stesso spazio concreto ma a non esserlo a livello mentale, incapaci come sono di comunicare tra loro.
La denuncia sociale è giostrata con abilità dal regista, che sa dosare efficacemente il piano della commedia e quello della tragedia in una continua altalena. Servendosi di un’ironia graffiante mostra le assurde contraddizioni burocratiche e i vizi contemporanei che secondo Arcand ci stanno portando a grandi passi verso una seconda età medievale senza luce. In effetti i presupposti ci sono tutti: notizie allarmanti che bombardano la gente da tutti i mezzi di comunicazione fanno pensare a una nuova apocalisse e inquinamento ambientale, guerre, malattie, disumanizzazione generale e crisi dei valori fanno il resto. Arcand si rivolge con accanimento, nella sua satira, all’universo femminile e allestisce un ricco vivaio di figure (la moglie innamorata del suo lavoro, la collega lesbica, la capoufficio dispotica, le single degli speed date interessate solo al benessere economico e la fanatica di Tolkien) tutte ugualmente precluse al desiderio del protagonista, rendendogli paradossalmente più raggiungibile una patinata diva del cinema.
Gli spunti di riflessione che la pellicola offre sono innumerevoli, forse davvero troppi per essere adeguatamente assimilati dallo spettatore. In certi casi si ha come l’impressione che il regista abbia fatto man bassa di tanti mali del nostro tempo e si sia divertito a buttarli lì tutti insieme, strizzando poi l’occhio furbescamente al pubblico. C’è da dire anche che Arcand, preoccupato di infarcire la pellicola di più riflessioni possibili, fatica a mantenere poi sempre alto il tono del racconto che si perde decisamente nella lunga sequenza del gioco di ruolo medievale, in parte asciugata rispetto alla versione presentata a Cannes. Si può dire che il film è come il suo finale: dà la speranza che non tutto sia perduto e destituisce la fantasia dal suo ruolo di salvatrice del genere umano per porvi l’arte e la natura.
A cura di Caterina Danizio
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