47, vivo che ammazza
L’Ave Maria di Schubert è una delle melodie più delicate e struggenti che siano mai state composte: la si ascolta in Chiesa, o nei concerti, spesso associata a matrimoni od occasioni di giubilo. Immaginate ora di associare le vette altissime di emozione suscitate da questa composizione a sequenze in cui bambini non ancora adolescenti vengono tatuati, picchiati, sottoposti a durissimi allenamenti e poi cacciati come prede di un sadico safari nella neve. È questa l’accoglienza che Hitman riserva agli spettatori nei primi minuti di proiezione, aggiornando tutti gli appassionati del celebre videogioco sui primi anni di vita dell’enigmatico Agente 47.
47 è un numero magico: è il numero dell’aum, il mantra più sacro della religione induista, intriso di significati divini; 4 è sinonimo di morte nella numerologia cinese, 7 significa consapevolezza. E la consapevolezza nel somministrare morte sembra la caratteristica principale del protagonista geneticamente modificato e addestrato a non fallire mai. Ciò che colpisce di Hitman è la grazia con cui 47 porta a termine qualsiasi azione, la meticolosità con cui prepara stragi, la precisione con cui le esegue: nonostante l’assenza di una qualsiasi traccia di sentimento, 47 non risulta mai personaggio, negativo bensì una sorta di vendicatore a contratto, che per merito di due occhi interrogativi scopre la difficile via verso il libero arbitrio, dono di quella divinità di cui tanto porta addosso a partire dal nome, ma di cui ha perso l’emanazione principale. Le somiglianze di Timothy Olyphant con la sua controparte digitale sono davvero notevoli, specialmente per quanto riguarda le movenze: le sequenze nei corridoi di alberghi o centri congressi sembrano degli estratti dal videogioco, e il protagonista dimostra di avere portato a termine un minuzioso studio del suo modello ispiratore (si veda ad esempio il modo di tenere le braccia distese lungo i fianchi) per offrire al pubblico una riproduzione quanto più fedele dell’Agente 47.
La storia ricalca modelli in realtà già frequentati, in ultimo da Matt Damon nel terzo capitolo della trilogia dedicata a Jason Bourne, The Bourne Ultimatum: ciò nonostante, la novità sta nell’aver reso lo spettatore sostenitore senza esitazione di un assassino che mai per un istante è stato dalla parte del bene, e che uccide in maniera impeccabile qualunque cosa si trovi nella sua traiettoria. Per quanto senza dubbio diseducativo, Hitman porta ai massimi livelli la figura del killer professionista come mai prima d’ora: sublime, angelico e spietato, perfetto in quanto ultra-umano.
Non resta che aspettare un nuovo capitolo del Silent Assassin.
A cura di Enrico Bocedi
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