Dolore e ragione
I giudizi sull’ultimo film di Paul Haggis (già premio Oscar per Crash – id., 2004) si sono decisamente bipartiti tra chi lo ritiene prodotto di genere ben confezionato e chi definisce il suo stile, razionale e compito, come troppo freddo e privo di pathos e per questo imperfetto. Il regista, che ha sceneggiato gli ultimi quattro grandi film di Clint Eastwood, ha ormai definito nel segno della comunione di intenti e di modus operandi il suo modo di dirigere attori e macchina da presa, fintanto da poter definire una vera e propria wave che accomuna Haggis, Eastwood e, ad esempio, Sean Penn, fiorita negli ultimi anni ad Hollywood. Si tratta della definita scelta stilistica di raccontare con essenzialità e fermezza le vicende anche più drammatiche dell’essere umano, assecondando la maniera narrativa più simile al racconto classico.
In questo film Haggis depone la multilinearità del titolo precedente e si immerge completamente in una sorta di romanzo tradizionale. Il risultato è un ottimo prodotto, asciutto, pacato ma nondimeno potente e sovversivo (non a caso è stato rifiutato da gran parte del pubblico americano). Tommy Lee Jones, statuario e fortissimo padre, ripercorre a ritroso la misteriosa scomparsa del figlio, avvenuta non in Iraq ma al suo ritorno in America, su cui, al fine di proteggere il buon nome dell’Esercito e dei suoi soldati, si vagheggia. Persino la polizia, rappresentata da una Theron che riconferma la sua stoffa da Oscar (vinto per Monster – id., Patty Jenkins, 2003) ancora una volta nell’offuscare la propria bellezza, sottovaluta il suo caso, salvo poi riconsiderare “l’accaduto” come una storia di ordinaria tragedia.
La follia del combattere in un territorio che rifiuta la presenza “benefica” degli americani, la povertà, soprattutto interiore, che spinge i ragazzi a occupare il loro posto nel mondo impugnando le armi, sono narrate nei termini dell’indagine poliziesca compiuta per mano dell’eroe solitario, inascoltato dalla società che lo ospita. Poche lacrime, compunta la disperazione anche di una perfetta Susan Sarandon, tornata allo stile delle interpretazioni che l’hanno resa la grande attrice che è, ma sicuramente dense e agguerrite sono la polemica e la disapprovazione, come efficace è la messinscena del dolore.
A cura di Daniela Scotto
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