Metti una sera a New York
New York, si sa, è una città stupenda: ci trovi le luci, i colori, i volti che per anni hai visto al cinema e in televisione, abbandonato a sognare mitiche avventure in un mondo tanto distante come gli Stati Uniti. Finalmente, alla non più tenera età di 25 anni, anch’io mi sono ritrovato per la prima volta in questa straordinaria metropoli, perso a girare col naso in su a fare incetta di immagini già viste eppure mai così reali. A un certo punto, una sagoma familiare mi ammicca da un grosso cartellone pubblicitario: sguardo truce, fisico esplosivo, maglietta logora e sporca di sangue. Non può essere che Br… un momento, Maglietta?!? Dopo qualche secondo di smarrimento, dovuto alla mancanza della celeberrima canottiera bianca, mi accerto che l’uomo che campeggia sul manifesto è comunque lui, Bruce “John McLane” Willis, che sembra ammiccare sopra una scritta eloquente: Live free or Die Hard. Un attimo per realizzare, un sussulto di emozione, una necessità vorace: devo assolutamente trovare un cinema.
Un newyorkese lungimirante intuisce e mi dice che, se voglio una “fucking movie experience”, devo prima effettuare la preparazione atletica: oltre mezzo chilo di costine di suino, coperto di salsa multisapore, e un bibitone gigante. Ingolfato, agguanto i miei biglietti alla cassa e, dopo una dozzina di rampe di scale mobili, sprofondo in una poltrona formato maxi, con gli occhi pronti a un’alluvione di azione. Non ho mai visto un film della serie Die Hard al cinema in Italia, ma li conosco a memoria dopo innumerevoli passaggi televisivi: McLane è più di un mito per il pubblico italiano, ma non sono preparato a quello che mi aspetta.
La sala è indisciplinata, sembra impaziente o forse molto coinvolta, come i bambini delle elementari che vanno a teatro e gridano “Attento” al protagonista in pericolo; rumoreggia alla prima apparizione del detective, e sembra aspettarsi molto più di quanto, incredibilmente, mi stia aspettando io. Allo scatenamento delle prime scene di azione a cui Bruce Willis ci ha abituato, il mio europeissimo velo di Maya si squarcia per rivelarmi una Verità suprema: i miei vicini di posto si agitano animosamente, la gente in sala grida “Yeah!!” e fischia, diverse tipologie di generi alimentari volano verso lo schermo e rotolano sul pavimento. Sembrano soprattutto pop corn, di quelli pieni di burro, e mentre realizzo questo comprendo anche come gli altri spettatori stiano vivendo questa esperienza. McLane è uno di loro, lo potrebbero incontrare in uno dei tanti bar di Brooklin, è lo scorbutico ma incrollabile detective del NYPD che vigila sulla loro sicurezza e incarna le loro paure ma anche i loro valori.
Ora capisco perché Hollywood sforni dozzine di questi film, e capisco perché piacciano così tanto: sono una delle espressioni più pure dell’American way of life, e riescono a tirare fuori il lato migliore degli americani, quello che impazzisce per il divertimento e che vuole avere esperienze di coinvolgimento totale. Questa realizzazione però mi dà un po’ di tristezza: non potrò mai godermi un film con Bruce Willis nel modo in cui se lo sta godendo, grufolando tra i pop corn, il mio vicino di poltrona. Sarebbe come pretendere che lui si godesse come me L’allenatore nel pallone (Sergio Martino, 1984): impossibile.
Insomma, la differenza è già nel titolo: in Italia è Die Hard: vivere o morire, qui a New York è Live Free or Die Hard, tutta un’altra storia.
Il film, pur non essendo ai livelli dei primi due capitoli della saga, è però meglio del terzo poiché i suoi 130 minuti sono una vorticosa iperbole di scene eclatanti e irreali, in perfetto stile McLane. Bruce Willis è in una forma strepitosa, la sua faccia ironica e tumefatta è più affascinante che mai, e nei panni di padre geloso alle prese con i primi fidanzati della figlia è incredibilmente a suo agio.
Il momento sublime arriva con il pestaggio in stile rissa da bar che McLane instaura con l’agile Mai Lihn: in quel preciso momento l’esaltazione del sottoscritto era alle stelle, in sala esplodeva un boato mai sentito in un cinema, e io realizzavo che, anche se solo per un istante, stavo vivendo veramente una “fucking Die Hard experience”.
A distanza di qualche mese devo ancora capire che cosa ci facesse Edoardo Costa nel cast del film, ma poco importa: la mia notte era stata perfetta, e io ero pronto per una nuova giornata nella Grande Mela.
A cura di Enrico Bocedi
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