Monografia
Jaron Albertin
E se lasciando andare le immagini che ho in testa da 26 anni vedessi Cronenbergh e Lynch nella videomusica di Jaron Albertin?
Catalogare è sempre pericoloso, si rischia di voler vedere cose che non esistono. Anche perché il primo lavoro del regista con Ascii Disco mi (quasi) smentisce: artista della post produzione, Albertin, canadese (come David Cronenbergh), crea per Strassen (2003) un mondo a metà tra uno spinto pop tecnologico e una colorata caricatura della musica elettronica sexy. La coreografia degli omaccioni sudati (la parte umana e carnale) e sorridenti come manichini (l’elemento di plastica, la macchina finta della rappresentazione): si mettono in mostra come mostri post moderni, tra scomposizioni del corpo ad opera delle manipolazioni computerizzate – i frazionamenti a specchio del viso e le moltiplicazioni delle gambe – e la trasformazione in logo decorativo di un uomo in cyclette, di gelati, di schermi aerobici di controllo del battito cardiaco.
L’estetica ricorda gli anni Settanta e, a dire il vero, qualcuno di quei maschietti in pantaloncini gialli giro pube porta i baffi alla John Holmes: ecco che improvvisamente i loro occhi sono censurati da una striscetta fucsia (non nera, siamo pur sempre in una dimensione di semi-realtà), la scena procede di fermo immagine in fermo immagine e gli atleti diventano figurine monodimensionali, fintissimi, ritagliati da qualche rivista di benessere dei primi anni Novanta.
Con For You dei Solvent (2004) siamo ancora da quelle parti: la musica elettronica disfa l’essere umano attraverso la sintetizzazione dei suoni e delle rappresentazioni, lì dove il corpo muta in ombra, appiccicandosi a un collage visivo infantile e inquietante.
Spaccato e mutante, ma divertente, Albertin provoca reazione e attenzione attraverso un’affascinante commistione visiva di cose-persone-macchine-computergrafica-narrativa.
Semplici e ipnotiche, nascono così le tette con la bocca di Sexy Result, DFA 1979 (2004): un ambiente 7 minutes, che si svolge tutta in un fuori campo misterioso, visto solamente attraverso gli sguardi del ragazzo sul letto, occhi fissi su un “al di là” oltre la macchina da presa. Ed è un fuori fuoco ad accoglierci dentro il video, come a dire che la possibilità di vedere chiaramente è solo uno dei tanti modi di percepire un panorama del mondo.
I suoi occhi sono chiusi, viene da un sogno (dalla morte?). Affiorato da un altrove, si trova catapultato, come noi, in un regime visivo insolito, accompagnato dalla musica soffusa, ripetitiva e circolare, unica punteggiatura sulla quale l’immagine si spiega, accade, si muove, si illumina e cambia.
Anche qui, in quello che si può considerare un pianosequenza ideale su un descritto “reale”, l’assimilazione della grafica, del morphing, al corpo vivo e umano complica l’interpretazione tra l’uomo di sangue e le sue impreviste metamorfosi oggettuali, che lo rendono una “cosa” manipolabile. Non a caso, il ragazzo porta sul volto il segno visibile della penetrazione traumatica appena subita: un’emorragia dal naso.
Future, e si guarda guardare, affondando nel suo stesso mondo perennemente incrinato: inquadra la telecamera e fa ruotare la stanza del set come un impossibile labirinto. Un po’ fa ridere il cameraman o regista che sia, che rincorre come un guardone in impermeabile la fanciulla. Ma lei non può scappare perché lo spazio la fagocita e la frantuma, riflettendola in uno specchio, spezzandola in un doppio solo per poi fondere i pezzi insieme e creare un nuovo essere.
Nell’occhio della macchina da presa quel fuoco sembra una gemma primordiale, sembra pure un fallo pulsante, sta tra le due entità femminili che si guardano e che poi rimangono inevitabilmente attaccate in una nuova genesi del corpo. Per poi, a video finito, staccarsi e, pare proprio, morire.
Gioca anche con Maximo Park per Apply Some Pressure, velocemente, dove luci e montaggio confondo le carte del tempo e dello spazio, creando scatti d’immagini innestate l’una nell’altra come interferenze, invitando a non guardare, a non fidarsi delle apparenze. Che nella moltiplicazione illusoria delle presenze umane ci sia il Gondry di Let Forever Be (Chemical Brothers)?
Di sicuro con il 2006 il giovane regista canadese (ancora non ho idea di quando sia nato, ma dalle immagini che ho visto non dovrebbe superare i 36) inizia a schiudere le sue visioni.
Per Junior boys c’è In The Morning, videostoria perfettamente impastata ai suoni tecnologici e caldi del gruppo. Strade di un borgo di provincia che sembrano, sono, palchi teatrali (ancora), una scena già conclusa, una giornata in fuori campo e una notte sfortunata, dove tre personaggi sfatti si perdono.
Striptease, H (ospedale?), Danger of death. Keep out: ognuno dei personaggi, condannati quella notte dal misterioso meteorite-alieno atterrato in chissà quale altrove, finisce sciolto nel suo stesso corpo, saliva, sangue e piscio.
Un mistero perturbante nella normalità, dove l’interiorità umana, esposta, rende permeabile le panchine, le strade, la città, fino al mondo intero. Il rischio è quello
di sparire, ma non è poi forse un sollievo?
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Per i Mew Albertin dirige Why Are You Looking Grave, dove per la prima volta appaiono le sue maschere animalesche. Preso anche qui da una narrazione visionaria e ricca di piani sovrapposti, il regista giustappone scene e immagini che si incontrano e insieme risuonano: interiorità e sogno, echi, la circolarità del movimento di macchina attorno ai musicisti parzialmente nascosti da un albero o da un palo (il perno dell’inquadratura), braccia che si allungano e si fondono, biciclette e panchine che si chiamano, mentre il mondo intorno si fa del tutto onirico. Affascinanti creature dal volto di maiale, senza un occhio, o cos’altro? Facce leonine?
Ogni cosa può accadere, mentre il mondo si piega e si contrae per la macchina da presa, un po’ giocando, un po’ temendo di finire sottosopra, con la spazzatura in bocca.
• Vai alla Seconda parte: 2007 della monografia di Jaron Albertin
A cura di Francesca Bertazzoni
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