Milano Film Festival12
18 settembre
Oggi voglio partire dalla fine. Dopo aver visto i cortometraggi del Gruppo F esco dallo Strehler con il sorriso sulle labbra, tuttavia un po’ turbata. Mi avvicino al banco dove il pubblico può votare con una moneta il suo corto preferito e scambio le mie opinioni con una signora anch’essa un po’ perplessa. Le nostre valutazioni coincidono perfettamente: troppo tristi questi corti, senza speranza e senza possibilità di riscatto. La stessa sensazione che avevo già avuto per la maratona animata di ieri.
Che sia lo specchio di una società in affanno?
A dare lo spunto è stato l’ultimo corto Ma culotte (Blandine Lenoir, FRA, 2006, 35mm, 14’), che racconta generazioni di donne, il loro rapporto con l’amore e con il sesso, la solitudine, l’eccitazione e la scoperta. Un corto frizzante e dall’aria spensierata, sebbene porti con sé la drammaticità dei giorni nostri: la disgregazione della famiglia, la vita di coppia formata non più dagli adulti, ma dai genitori e dai figli, realizzazione contemporanea della tragedia di Edipo. Tuttavia, il film riesce a far sorridere attraverso temi dissacranti, affrontati con naturalezza e spirito.
Tutt’altro scenario per Rauschen & Brausen I (Daniel Burkhardt, DEU, 2007, miniDV, 5’) che espone la volontà dell’artista di comunicare le sue sensazioni nei confronti dell’esistenza vissuta nel contesto urbano. Un’unica ripresa di un palazzo, lunga 16 minuti, che si spezza sullo schermo in tante piccole porzioni di spazio. Pian piano l’inquadratura si estende e la stessa immagine non comprende più un solo grattacielo, ma due, tre, quattro… L’immagine diviene astratta, irriconoscibile rispetto a quella di partenza. “Nell’inquadratura finale ho voluto mettere tutti i fotogrammi dei 16 minuti che ho girato” dice il regista Daniel Burkhardt; l’effetto è un’immagine di immateriale, di non senso, dal concreto all’astratto in un’unica scena.
Gli esempi nordici come quello inglese Nowhere, No one (Ian Waugh, GB, 2007, miniDV, 18’) e norvegese Tommy (Ole Giaever, Norway, 2007, DvCam, 12’) si contraddistinguono, invece, per il racconto di incontri assurdi, storie disperate, in un mondo sempre più dissennato e misero.
In gara, poi, c’è anche un corto italiano: Ieri (Luca Scivoletto, ITA, 2006, 16mm), che narra della strage di Piazza Fontana a Milano nel 1969. Un ragazzo e una ragazza si confrontano sulla strage, esponendo visioni diverse affrontate con il linguaggio dell’ideologia. Il periodo raccontato è forse troppo complesso e difficile da fronteggiare in soli 11 minuti.
Sebbene le tecniche tentino di far rivivere le immagini di una volta, e i vestiti e la casa scelti cerchino di trasmettere la patina del passato, tuttavia la narrazione stenta. Si fatica a entrare nella storia e a muovere le proprie emozioni di fronte ad un evento così tragico.
Un esempio magistrale è nuovamente dato da un corto francese: Apnée (Claude Chabot, FRA, 2006, digital, 4’), in cui immagini digitali che sembrano fatte di cera raccontano, in una successione fotografica senza l’uso di alcuna parola, la storia di uno scandalo. Applausi meritati per questa rappresentazione.
Quello che sembra mancare un po’ al Festival è, però, la manifestazione del dissenso. Al termine di ogni corto, bello o brutto che sia, gli applausi sono d’obbligo e il gradimento si comprende solo dall’intensità degli stessi. Qualche buon fischio potrebbe non essere del tutto sgradito. Ma forse questo non sarebbe chic.
A cura di Alice Dutto
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