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cultura dell'immagine e della parola

Cronache da Venezia
1 settembre

Una scena da <i> In the valley of Elah</i><br /> di Paul Haggis” />Dalla Mostra che s’interroga con insistenza sull’importanza dei diversi punti di vista, sottolineando più o meno sottovoce il valore del pluralismo o la pericolosità dell’abbondanza di informazioni, emerge pure una questione legata ai modi attraverso i quali i messaggi vengono percepiti dall’uomo. Anche <em>In the Valley of Elah</em> di Paul Haggis affronta il tema della guerra in Iraq, come <em>Redacted</em> di De Palma, ma offre allo spettatore una storia meno contaminata e più lineare dal punto di vista filmico. Due valori aggiunti di un cinema, quello di Hollywood, che in questo momento sta decisamente trovando una nuova collocazione, molto più consistente addirittura del post 11 settembre. Un cinema che non solo s’interroga, non solo accusa, ma che fa vedere. Immagini che raccontano di una guerra, di uomini, di vittime e carnefici, di pazzie. Haggis dimostra anche nel suo secondo lungometraggio di essere un grande sceneggiatore di sé stesso (anche se come regista strizza sempre l’occhiolino a Eastwood) e ha il merito di aver amalgamato un cast notevole dal quale spicca uno strepitoso Tommy Lee Jones (Charlize Theron e Susan Sarandon completano).</p>
<p>Poi, il giorno successivo, un viaggio nel tempo con l’ultimo film di Eric Rohmer <em>Les Amours d’Astree et de Celadon</em>. Una sensazione strana, quasi nuova, per chi come l’intruso era ancora immerso nelle questioni americane, tra riprese fatte coi telefonini e ritmi sconvolgenti. Rohmer, invece, si diverte a raccontare l’ennesima variazione sull’amore allestendo un curioso e fresco dipinto di metà seicento (il film è tratto dal romanzo “L’Astrea” del 1627). Montaggio morbido, quadri al posto di inquadrature, i volti di velluto che ammiccano, equivoci e riprese al servizio di una natura che esprime tutto il senso del film. Un cinema che fu, ma che, a quanto pare, è ancora.</p>
<p>Infatuato dall’ombra delle betulle, dai corpi che si arrotolano felici nell’erba, l’intruso si accomodava felice e in pace col mondo pronto a conoscere il nuovo film di Ken Loach, <em>It’s a Free World</em>… Il lavoro come necessità, non come vocazione, la società come giungla che schiaccia, la coscienza che spinge alla sopravvivenza e i diritti e i doveri ridotti a domande senza risposta. Loach racconta l’altra sopravvivenza, quella che deve affrontare l’uomo contemporaneo coinvolto in una vera e propria lotta sociale per la conquista di un posto (sano, onesto, in regola…). Nulla di nuovo, quindi, se si pensa alla filmografia del regista, eppure il film è impressionante per come riesce a penetrare nella mente della protagonista, per come descrive le reazioni, per come entra nelle relazioni di persone arrugginite, stanche, arrabbiate.<br />
E’ tradizione, anche, che la Mostra presenti un milione di manifestazioni collaterali (perché niente sul cinema d’animazione?). Ecco allora gli occhi dell’intruso immersi nella Settimana della Critica, prima dentro [itlaic]24 Mesures</em> di Jail Lespert, dopo con l’ottimo esordio di Dimitri Karakatsanis, [itlaic]Small Gods</em>. Nuovi volti, nuove storie, nuovi modi.<br />
L’intruso era in ritardo. Di nuovo.</p>
<p>Meno uno per <em>The Darjeeling Limited</em>.<br />
Meno sette per l’intruso sul treno.</p>
				<p class= A cura di Matteo Mazza
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