Affresco di famiglia
La voce narrante e il punto di vista sotto cui passa tutta la vicenda appartiene a Elisabeth Gierlich, la nonna dell’autrice. Tedesca purosangue e cattolica profondamente credente, Elisabeth è stata indottrinata entro valori che esaltano l’onore, l’educazione e il rispetto. Possiede una forte consapevolezza della propria posizione sociale privilegiata. Giudica neri, ebrei e asiatici irrimediabilmente diversi. Il “suo” razzismo non è tuttavia virulento ma fondato su un’ingenua quotidianità: in lei risiede un così radicale valore del sangue tedesco che “quei poveretti”, come direbbe lei, non possono in alcun modo appartenere al suo mondo. In lei convivono anche una grande praticità, vanto delle donne della sua famiglia, ed uno sfrontato coraggio.
Tutti questi elementi incrollabili hanno però un’incrinatura quando Elisabeth sposa Carl Rother, un medico ebreo convertito al cattolicesimo. Da quel momento deve venire continuamente a compromessi con l’ostinata famiglia del marito. La sua sobrietà le impedisce ogni risoluzione dei problemi che, ad un certo punto, iniziano ad allargarsi fino ad uscire dalle ordinate villette del paese dell’Alta Slesia dove tutto è iniziato. La famiglia Rother deve fuggire dal regime nazista e dalle leggi “per la difesa del sangue”. Solo Carl vi riesce. Destinazione: New York. E’ seguito dalla famiglia, Elisabeth e la loro bambina, Renate. La nuova casa è sinonimo di nuova vita, ma anche di vecchie questioni. Renate sposa uno scienziato ebreo, ha due figli, Carl e Irene: uno giudizioso, minuto e “molto” ebreo, l’altra robusta, scapestrata e molto teutonica. Nonna Elisabeth non può che annotare, con tenerezza e con tutti i preconcetti della sua educazione, le peripezie del sangue del suo sangue, ormai del tutto stars and stripes.
La voce narrante ostenta onniscienza e un’ingenua supponenza a cui ci si abitua presto (altrimenti è meglio chiudere il libro). Il romanzo piace per la cronaca tutta familiare che l’autrice dà della storia europea e americana dagli anni Trenta in poi. I fatti reali, anche i più importanti, sono al servizio della vicenda raccontata. Ricognizioni temporali minuziose si alternano a salti di mesi e anni. Il linguaggio è brillante e con una reticenza sulle questioni più scabrose che fa sorridere. Piace la nonna che resta civettuola fino a novanta anni e che, pur nella sua cocciuta alterigia, si affeziona in modo viscerale alla cameriera (il personaggio più simile a lei, paradossalmente).
E’ un romanzo che incita al tifo per i suoi personaggi. Elisabeth, con il suo piglio bigotto, renderebbe appagato l’estro caustico di Woody Allen e Woody Allen sarebbe il bersaglio perfetto di Elisabeth nelle critiche agli uomini, che ritiene tutti “mammolette”. Un romanzo di donne senza peli sulla lingua che ci dà un affresco, quasi involontario, del XX secolo. Sconvolge positivamente, perché vicende personali e storiche si assomigliano nel peso dato all’interno della narrazione: tutto viene attraversato da una leggerezza che è, allo stesso tempo, acuta e commovente.
L’autore
Irene Dische è nata a New York ma vive da molti anni a Berlino. Dopo aver svolto per anni l’attività di antropologa, ha esordito nella narrativa con i racconti di Pietose bugie (1989), ma è con il libro per ragazzi Lettere del sabato (1997), che racconta la persecuzione razziale attraverso le lettere che il piccolo Lazlo riceve in Ungheria ogni settimana dal padre, che conquista la consacrazione internazionale.
A cura di Stefano Aldeni
in libreria ::