Da morire… dal ridere
Hostel (id., 2005) fu un grande successo. I produttori incassarono milioni di dollari grazie a un pubblico fatto per lo più da adolescenti, bramosi di farsi sollazzare da un film scuro, sporco, cattivo e dal deciso gusto chirurgico nel mostrare amputazioni e menomazioni. Nessun mostro cattivo, rarissimi momenti di alleggerimento, sangue e sevizie fatte da semplici uomini nei confronti di altri uomini.
Eli Roth, nell’inevitabile sequel, cerca di aggiustare il tiro, ritagliando maggiore spazio alla psicologia dei carnefici e virando la storia al femminile, riavvicinandosi così alle tematiche care agli horror degli anni Ottanta e Novanta.
Intenzione lodevole, che gli permette di scrivere una sceneggiatura sicuramente più interessante e attuale sulla deriva violenta dell’uomo, sul potere del potere, sulla ricchezza che può comprare non solo felicità, ma anche la vita stessa. Lodevole, appunto, ma non sufficente e spesso involontariamente comica, anche nelle scene più crude.
La struttura ritmica del film rimane essenzialmente la stessa e identici anche i giochini cinefili. E se Hostel vantava i cammeo dell’amico e produttore Quentin Tarantino e del maestro dell’horror giapponese Takashi Miike, Hostel: Part II rende omaggio al cinema italiano di genere, con i chiacchierati ritorni sulla scena di Edwige Fenech nel ruolo a lei storicamente congeniale di una professoressa, di Luc Merenda nei panni di un ispettore di polizia italiano e di Ruggero Deodato, regista di Cannibal Holocaust (id., 1980), che non poteva non incarnare il torturatore cannibale. Risatine.
La struttura è appunto la stessa, ma gli snodi narrativi vengono modellati in base ai bisogni e alle paure delle nuove protagoniste e dei nuovi carnefici. Roth, cercando di scavare nell’onnipresente metà oscura di ognuno di noi, finisce per cadere nei luoghi comuni. Da una parte ragazze in cerca di qualcosa in più che essere considerate meri oggetti sessuali e dall’altra uomini che aspirano a emergere dal gregge, a sentirsi forti e dominatori.
Purtroppo la messa in scena di questa sempriterna dicotomia è gestita grossolanamente. Le tre giovani studentesse americane a Roma continuano a ricevere insulti sessiti e reagiscono alla parola “puttana” come faceva Marty McFly nel sentirsi chiamare “fifone” in Ritorno al Futuro (Back to the Future, Robert Zemeckis, 1985). Roth sembra però divertirsi un mondo e lo scrive anche sulle pareti dello scompartimento del treno. Risate.
Dall’altra parte la Elite Hunting e i suoi clienti torturatori, stufi del lavoro e di mogli castranti. Due fratelli, uno spaccone e uno sensibile, risoluti a diventare assassini perchè uccidendo «poi diventi diverso, come dopo aver fatto sesso per la prima volta», sono l’incarnazione dell’uomo moderno che vuole emergere dalla massa e non trova modo migliore per farlo che usando la violenza come strumento di potere. Il più spaccone dei due, quello ricco, bello e atletico, soccomberà a se stesso davanti alla realtà della carne e del sangue, mentre Stuart, quello sensibile, irrisolto e frustrato farà esplodere la sua metà oscura tenuta a bada troppo a lungo dalle convenzioni sociali e familiari. In effetti è la parte più interessante del film e risulta anche la più riuscita. Chissà se è un caso che il ruolo di Stuart sia stato assegnato all’attore Roger Bart, che ha una forte somiglianza fisica con il regista. Quando di fronte alla sua vittima, in primo piano, Stuart dice «io non sono così», la battuta suona come una dichiarazione di Roth nei confronti dello spettatore. Che stia facendo ammenda?
Però si sa, le regole dell’horror sono ineluttabili e la vittima si trasforma a sua volta in carnefice. Ma a differenza di quello che ci ha insegnato Scream (id., Wes Craven, 1996) non si salverà la donna pura (che anzi è l’unica mostrata nuda e grondante sangue), ma neanche il suo opposto emancipato e consapevole della propria sessualità (che verrà orribilmente sfigurata). Sarà la ragazza che possiede un’enorme ricchezza a comprarsi la la libertà. E così i ruoli si ribaltano e Stuart/Eli rimane inerte tra le grinfie affilate di una donna ferita, più dagli insulti che non dalle percosse, che per contrappasso lo punirà dando letteralmente in pasto ai cani la sua virilità.
Il vero mostro è genarato dalla violenza, e una volta scatenato diventa inarrestabile: prima giovane donna, poi ricca salvatrice di sé, quindi moglie castrante, fino a vendicatrice e madre dei bambini violenti della banda bubble gum.
E via col calcio e la risata finale.
A cura di Sara Sagrati
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