Together in one smash explosive show
C’è gente che dovrebbe darsi allo scopone scientifico, al brivido delle canzonacce nei bar, due uova sode salate e un bel quartino di rosso. Magari, certa gente dovrebbe anche scaricarsi l’ultima cover di Battisti La compagnia, cantata da Vasco e ritrovarsi con i coetanei settantenni. Al bar e davanti a un pacchetto consumato di Dal Negro. Scoprire l’eccitazione per il bestemmione di Alfonsino, l’energia destabilizzante di una presa per il culo, e per finire una grassa risata che rimanda in circolazione e in mescolo una vita passata a separare la cultura alta da quella bassa.
È l’augurio spedito alla P2 della critica cinematografica arcaical-chic italiana, che se il film non è la solita “cagata pazzesca” franco-korean-sovietica, ricca di spunti per trovare “senso”, i “sensi” o addirittura “il” senso dell’esistenza, non riesce a tirarsi di pugnette – vicendevolmente e a catena, visto che alle anteprime i Critici si schierano tutti insieme e fianco a fianco, per mostrare che il loro sarcofago non s’è mica chiuso.
Il film di Tarantino, uscito orfano dell’episodio firmato Rodriguez (Planet Terror) e di quattro succosi trailer di futuri lungometraggi, – quindi in Italia aborto di un’idea originale precisa, mentre in Usa genunino nella forma ma fallimentare al botteghino – è stato accolto dalla critica di cariatidi scoreggiona nostrana come un inno alla violenza, esaltazione demistificante o compiaciuta (non si sa bene quali delle due) al vuoto di prospettive nel cinema moderno.
Proot!
A prova di morte è prima di tutto un film a prova di seghe (intellettuali) ma che inneggia all’“alta” scuola delle seghe, quelle a frizione di palmo. Quelle dirette che eccitano all’istante.
A prova di morte è un film sugli amori di un regista pop, (quindi che celebra e si prende gioco di una certa forma di consumismo cinematografico), prima ancora che regista postmoderno: Mr. Quentin Tarantino.
Innanzitutto amore per la carne. Amore per il corpo femminile, sensuale e mai pornografico. Per i particolari, meglio se sparsi sulle curve di una vera amazzone – e l’estetica non ha bisogno di pesanti giustificazioni intellettuali. Amore per i dettagli: dita dei piedi aperte che sembrano fauci, capelli come crini di stalloni degli Appalachi, labbra che si succhiano le piñacolade di tutto il Messico e gli sguardi degli spettatori. Amore per i loro interminabili ed effimeri discorsi da femmes.
A prova di morte, in secondo luogo, è un film d’amore per un particolarissimo genere filmico, il Grindhouse, che i nostri critici cinematografici snobbano a priori e non s’azzarderebbero mai a scaricare da Amule, perché farsi le seghe (a mano) rende ciechi, e quella è merda popolare americana, mica Pasolini o Truffaut.
A proposito d’America, pare che negli Stati Uniti il pubblico Play Station si sia dimenticato di una fetta di storia di cinema nazionale. Una costola seminale dell’immaginario popolare: il Grindhouse. Il fallimento ai botteghini lo conferma. E sarebbe stato difficile aspettarsi altrimenti. Vista la durata elevatissima in combinata. Vista la fruizione odierna del cinema che manda nello scantinato anche un super, ipermoderno e postmoderno regista come Tarantino, trattato ormai come un vecchietto folletto vintage.
Il suo è un cinema di grande fisicità. Al Grindhouse ci andavi con pochi dollari per vedere i double feature più spettacoli, sprofondato in una poltrona puzzolente ma terribilmente familiare. Sale con proiezioni 24 ore su 24, film in accoppiata, intervallati da trailer assurdi. Birre e snack con l’amichetta, che casca sempre nella trappola del genere estremo, quello che ti porta per forza di cose a cercar conforto tra le braccia del furbetto accompagnatore.
Tarantino e Rodriguez omaggiano con amore viscerale quel genere di spettacolo popolare, il modo di fruizione, l’eccitazione, che non è vacanza momentanea al cinema, ma filosofia di vita: passione ed entusiasmo per il B-movie, lavoro di scavo, riscoperta e riapplicazione di stilemi del genere. Qui accusano Tarantino e Rodriguez di aver esagerato, di essersi ripetuti, di provocare a vuoto. Qui si sbagliano i critici, invece: quando diventano ciechi a forza di pippe e triste intelligenza. Qui sta la presa per il culo, d’altra parte: quando scatta il divertimento sciocco, l’eccitazione, tremendamente autoreferenziale, a un universo particolare (il grindhouse), ma soprattutto a un mondo ancor più specifico, ancor più loro, i loro stessi film fatti di attori che ritornano, controfigure e storie che intrecciano la passata filmografia tarantiniana. Con un linguaggio che mutua gli stessi, identici, artigianali ferri del mestiere di un Fulci o un Corman.
Nessuno può obiettare il fatto che il film sia una grande opera di filologia. Come in quei “filmacci” proiettati nelle sale di serie C, troviamo trailer, poster, pellicole di bassa qualità, rovinate, colonne audio interrotte, campi e controcampi raffazzonati, colori che sbiadiscono. Il tutto per amore (e non a semplice scopo seduttivo nei confronti dello spettatore), il tutto per reinventare un film grindhouse.
A prova di morte è un film riuscito, anche nella versione cinematografica monca, perché ritroviamo ciò che ci si aspetta da Tarantino: l’anima calda e creativa nei confronti della vita, cioè il “suo” cinema fatto di passione, entusiasmo e lavoro sulle basi. I dialoghi (da registrare per performance personali al bar di cui sopra), il ritmo atipico del montaggio, l’autoironia da cogliere nelle interpretazioni dei personaggi, laddove personaggio e attore, filmico e metafilmico, si confondono; nelle citazioni che con una capacità puramente pop reinventano il passato (e un genere passato) e lo ri-solvono fondendo sperimentazione visiva e furba comunicazione commerciale.
A prova di morte è un film riuscito perché fa quello che si propone: sviarci, non andare a parare da nessuna parte, se non riportarci alle sensazioni carnali di chi si spaparanza davanti a film obsoleti che raccontano, divertendo e intrigando, storiazze da Cronaca Vera. Tarantino aggira, raggira e prende in giro. Voi e i vostri pipponi a due mani, voi e il vostro cinema pieno di senso e i vostri esoterismi d’avanguardia, ma anche: voi malati delle inutili sciocchezze, del cinema sangre y mierda. «It’s pop time, daddy. A smash explosive show».
A cura di Giovanna Prugna
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