Occhi aperti, stanze chiuse
Inizi a leggerlo e ti sembra uno di quei soliti romanzetti da adolescenti complessati che si riempiono il cervello di ‘se’ e di ‘ma’, ma il lavoro di Signorin va decisamente più a fondo ed è assai più pernicioso. Il giovane autore ha divelto la struttura del romanzo, l’ha aperto, sezionato, ne ha fatto l’autopsia e l’ha richiuso, togliendo le parti infette, i cancri. Via le impurità in un lavoro di costante sottrazione e scarnificazione, ed ecco che la prosa si accosta alla poesia. Va da sé che potremmo chiamarlo un romanzo in poesia, l’altra faccia delle poesie in prosa di un Baudelaire o di un Rimbaud. Signorin fa pesare il suo testo, nel senso che ogni parola ha un peso specifico e una sua massa, e ci piomba davanti agli occhi quasi corporea, tangibile nella sua forma. La forma che significa più del significato stesso, e a sua volta genera significato nuovo. È il peso di un significante che si fa carico, sulle sue larghe spalle tarmate, delle carenze contenutistiche di un senso andato a male.
A questo punto ci si potrebbe domandare se vale la pena di parlare di storia, ed è proprio su questo punto che Appartamenti fonda per contro la propria leggerezza. Sulla storia e su come va letta. Romanzo elettronico percorso da una sottile corrente alternata, ma che non può essere se non di carta. La tensione di Signorin per la videoarte si fonde quindi con la necessità di dire. Ma l’impossibilità di dirsi non fa che togliere fiato alle sue parole. È quindi un romanzo orale, andrebbe letto in sussurri, come si fa con le poesie. E non conta poi tanto che questo dire sia solito e querimonioso. Per questo la sottrazione non fa altro che promuovere il proprio avvicinamento alle parole stesse, anzi ci dobbiamo inserire negli spazi vuoti per riempirli di senso, così, nel tentativo impossibile di essere oggettivi, ci lasciamo cogliere dalle analogie, perché è così che ci piace, perché leggere come se si trattasse di noi stessi ci fa stare meglio, perché in fondo ci siamo passati tutti, o perlomeno ci abbiamo pensato. Perciò «mi arrabbiavo come se stessi parlando male di me quando offendevi le cose che mi piacevano…». Altre ancora di queste parole sono legate ad una storia d’amore sradicata che resta sempre matrice primaria dell’attesa incompresa/incompiuta, in quella stanza chiusa, come «la sigaretta che si spegne lentamente senza essere fumata» e allora «la testa è china e non mi alzo». È tutta una questione di tempo. Dove va a finire il tempo? Dove è andata a finire quella sigaretta?
Ed è strano farsi una domanda del genere, perché «conosco puntualmente dove vanno a finire le mie azioni, so quello che mi capita e quello che mi attende».
Nel rispecchiarsi si guadagna sempre qualche punto, e se ti muovi negli appartamenti degli altri puoi permetterti qualcosina di più, e sei sempre un po’ più supereroe di quello che non sarai mai. C’è da credere che si arriverebbe a dire “sono il mio supereroe preferito”. Signorin riesce in qualche modo a metterci in contatto diretto con una parte di noi stessi che forse si è nascosta nella stanza sbagliata, ma anche a farci uscire fuori in una tensione alternata di continuità/discontinuità. Confesso che non mi sono lasciato prendere la mano da questo voto che è un po’ una scommessa per il futuro, anche se io non sono nessuno per puntare così in alto, e un po’, perché no, per narcisismo.
L’autore
Giuseppe Signorin è nato ad Arzignano (VI) nel 1982. Vive a Milano. È laureato in Scienze e tecnologie della comunicazione. Si sta specializzando in Cinema e televisione. Segue alcuni corsi all’Accademia di Brera. La sua ricerca artistica si estende a mezzi di diverso genere: poesia, video, installazioni sonore, fotografia.
A cura di Michele Marcon
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