Questa è (anche) la storia di uno di noi
Un ragazzo, pelle olivastra, parla rapidamente nella sua lingua e noi ci limitiamo ad ascoltarlo, senza capirci molto. Si chiama Licu e viene dal Bangladesh, paese poverissimo nel Sud-Est Asiatico. Ha un ciuffo ben curato alla Elvis e in mano sventola delle fotografie raffiguranti una ragazza.
Ci fa capire che in quelle foto c’è la donna della sua vita, non ne conosce l’odore e non l’ha mai incontrata. Eppure quella figura snella, diciotto anni, pelle liscia e abiti da principessa, tra due mesi sarà sua sposa. Lui non può farci niente e d’altro canto, non gli dispiace molto.
Così va la vita, pensa, e questa è una verità assoluta: è la verità della sua tradizione.
Vediamo questa scena proiettata su uno schermo, ma è una finzione mascherante, perché ciò che arriva agli occhi è vita vera che, attraverso il cinema, prova a comprendersi.
Le ferie di Licu davvero non è un’opera come le altre.
Con questo suo ultimo film, Vittorio Moroni realizza un’opera difficile come il procedere dell’esistenza stessa. Se la scommessa fa paura, bisogna però far presente che il regista risponde al difficile impegno con uno sguardo che va oltre il senso della macchina da presa stessa, un punto di vista onesto e mai giudicante, che non si lascia assuefare dalla routine della storia che racconta, ma che si sintonizza sulla sua progressiva trasformazione.
Uno sguardo antropocentrico, che si fissa sull’evolversi della vita per una ricerca che, sì, non può avere una conclusione (come si può dare un punto a un’esistenza che comunque procede inevitabilmente al di là dei titoli di coda?) ma che, nonostante tutto, in questa sfida difficile, più che dare le risposte necessarie, lascia delle domande importanti.
Moroni non discute sul valore intrinseco delle culture, delle religioni, non sarebbe una cosa giusta d’altronde; semplicemente osserva e verifica l’essere della sua visione nel tempo.
Lui modifica, incastra, cancella e ricrea: la materia della vita si plasma nelle sue mani e ciò che colpisce di tutta l’opera è il suo non esaurirsi estemporaneamente, il suo progressivo maturare, come un essere vivente, fatto di grana digitale, che cresce con i minuti.
L’occhio si avvicina ai corpi principali e si attacca a loro non morbosamente, non come cavie di un laboratorio scientifico, ma come creature di un racconto in costruzione. Moroni non è un grande fratello, non è uno showman pettegolo: è un antropologo buono che non sfrutta l’occhio meccanico per plagiare la verità, ma lo sfrutta per ridargli senso.
E se la prima parte su Licu colpisce per come è efficace nella sua presentazione, lo sguardo sull’alienazione di Fancy, dal villaggio asiatico al condominio romano, affascina per lucidità e tatto. Le ferie per il giovane immigrato durano un mese, eppure il senso di quest’opera e dei quesiti che inevitabilmente lascia, una volta finito lo spettacolo, non hanno tempo.
Quindi spegnete tutti i reality e venite al cinema. Quello vero di Moroni.
Curiosità
Le riprese del film sono state fatte a Roma e in Bangladesh e in tutto sono durate quasi due anni. Licu e Fancy vivono ancora insieme nella capitale.
A cura di Giuseppe Carrieri
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