Il male dietro il Padre
Incipit
Un abito da sposa cade da un aereo: è una scena rarefatta. Il bianco del tessuto si perde nel cielo immane. Lo schianto è inevitabile, eppure tutto succede in un fuori campo che non produce rumore alcuno. La Storia è così: il dolore dell’uomo non si vede, non si sente.
Esistono solo i poteri assoluti e le loro trame infinite. Il resto, non esiste.
Guardando The Good Shepherd, la sua confusa e funzionale sconnessione temporale, intrecciata come il labirinto della Storia stessa, la sua atmosfera da noir che non arrugginisce con i minuti che passano e la sua accesa tensione da spy story classicheggiante, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un affresco tanto imponente quanto scomodo e sconcertante.
L’America a cui assistiamo è una tana nera di assassini e servi diabolici, un’America malata, governata da poteri oscuri che arrivano ovunque, fatta di parole sussurrate e di ordini perentori senza ammissione di replica.
De Niro ha dichiarato di non avere realizzato questo film per un’urgenza critica o quanto meno per qualche mero scopo dichiaratamente polemico, eppure la sua regia naviga nei meandri di un potere che viene stanato nel suo male, di una società avariata che nel lusso dei propri saloni cova la foga del suo normale odio assoluto.
Il personaggio di Edward Wilson, nella sua corporeità prosciugata a qualsiasi forma di emozione, nel suo sguardo occhialuto privo di spasimi, racchiude in sé questa società. Wilson è davvero il buon pastore, figura che non tradisce mai la sua fede, qualunque essa sia, e che porta a termine indomito il suo dovere.
In molti tratti umani ricorda, per questo, la figura di Don Vito Corleone: sono entrambi uomini che hanno annientato ogni forma di morale o di resistenza al disumano per rifugiarsi in un’altra condotta, in un’etica personale (la mafia, la CIA) che li proteggesse (o che almeno desse loro l’idea di essere protetti) da qualsiasi colpa e mostruosità.
Come Coppola (che è anche uno dei produttori del film) ne Il padrino si getta in una pura epopea privata (quella dei Corleone, appunto) per catturare lo sguardo di un’intera società, anche De Niro individua in un dramma familiare la più grande contraddizione del sistema, in cui Wilson crede tanto e che spera sia infallibile. E, ancora una volta, individua tale crepa in un rapporto padre-figlio.
Come già era successo in Bronx, quattordici anni fa, registriamo la presenza di una paternità ambigua, dolce e amara, forte, fortissima, eppure vuota, abbandonata a sé stessa.
Nella figura del padre, che sia un mafioso di New York o un agente della CIA, sembra esserci la radice del male, c’è la sua spontanea eruzione, la paura di un bene troppo grande che, nella sua paradossalità, culmina nel suo tragico opposto e diventa errore.
Conclusione
Nel Vangelo secondo Giovanni è scritto: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore”. De Niro ci mostra che questo buon pastore, che questo fedele servitore, oggi non è per niente un santo, ma è diventato un assassino nella Storia, una codarda controfigura, un’ombra del potere stesso.
Del gregge da salvare non rimane che un fuoricampo, un vestito bianco che precipita piano e il mistero di un figlio che insegue l’amore paterno. Un urlo forte che, però, non fa rumore.
A cura di Giuseppe Carrieri
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