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cultura dell'immagine e della parola

Una parabola di saggezza

Una parabola di saggezza

Lasciate che i semplici vengano a me di Fabia Abati

La parabola è sempre stata un racconto per gente semplice, il veicolo per spiegare il mistero di Dio agli ultimi, a chi comprende il linguaggio del lavoro nei campi e non dei codici da decifrare. È un atto d’amore nei confronti dei cuori semplici e della Verità stessa, perché la Verità è una e intuibile da chi ha orecchi per intendere.
Così l’ultima parabola di Ermanno Olmi è un atto d’amore verso Dio, verso i libri, che pure vengono inchiodati al pavimento, ma soprattutto verso l’Uomo, che ama, odia, lotta, muore. Nessun libro vale un momento di comunione con un amico, la schiettezza di uno scambio sincero fra due persone.

Le parole di scienza, pronunciate dal professore nell’aula universitaria o cercate sulle pagine dei libri dal colto vescovo, si diradano per lasciare spazio ai primi piani dei volti degli anziani paesani, visi che tradiscono amore, allegria, paura di essere cacciati dalla propria casa. In una parola, lasciano intravedere la vita.
Semplice ma non superficiale, la parabola olmiana è in realtà densa di citazioni, di rimandi, di echi di poesia altissima, sacra e profana, a iniziare da un Gesù Cristo che crocefigge i libri attraverso i quali la sua Parola è diventata inaccessibile ai più. Il professorino tocca tutte le tappe della vita di Cristo con puntuale precisione: il battesimo nel fiume, la vita pubblica con la predicazione e i miracoli, il sacrificio per i fratelli, il processo e la condanna, la resurrezione.
Centochiodi cerca un senso nuovo alla religione e al suo ruolo nella società; la conoscenza della Verità non può rimanere chiusa sottovetro negli scaffali polverosi di una biblioteca (è una verità che odora di vecchio): meglio piuttosto crocifiggerla, costringerla a rimanere aperta sotto gli occhi di tutti, discuterla per formularne una nuova. Il Professore è un Cristo che non dimentica di interrogarsi su Dio e di interrogarlo sulle sofferenze umane più profonde, fino a irrompere nella frase apparentemente blasfema: «Un giorno Dio dovrà rendere conto di tutte le sofferenza dell’umanità», così come il Cristo dei Vangeli aveva gridato sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

La religione, la verità, la poesia fioriscono con naturalezza nei cuori semplici. Olmi regala allo spettatore l’immagine dei libri trafitti dai chiodi di Cristo, un’immagine gravida di genio e di sensibilità poetica. Ma anche dopo questo guizzo di poesia, di metafora pura, Olmi non si risparmia e continua a cercare la poesia delle immagini tornando sempre ai volti dei cuori semplici che sono il cuore del suo cinema. Da quei primi piani, dalle parole semplici e commoventi dei paesani, inconsapevolmente poetiche – «Il fiume va lontano» – si respira la saggezza di un uomo che non esita a lasciare in disparte la propria grande cultura per raccontare ciò che ha veramente importanza: la vita.

Un messaggio da tramandare di Giuseppe Carrieri

Ermanno Olmi non è un credente, è un aspirante cristiano. Ermanno Olmi ha inchiodato i libri per ricordarci che una lettura, tutta la sapienza del mondo, non vale un caffè con un amico. Ermanno Olmi ha inchiodato gli schermi perché, nell’ultimo spicchio di vita che gli rimane, ha deciso di andare a braccetto con la realtà, per non perderla di vista, per portarla con sé, perché anche uno come lui, un maestro che disprezza gli onori, ha paura di “morire”.
La sua filmografia è da sempre un continuo sguardo sulla spiritualità dell’uomo, nelle sue pene quotidiane e incancellabili; una spiritualità che non alberga necessariamente nelle chiese e che i libri non sanno insegnare.

Olmi ha raccontato come nessuno lo smarrimento dell’ umanità, aliena nel mondo del lavoro (Il posto), distratta e colpevole nel naufragio dei valori (Un certo giorno, La circostanza), assente nel vuoto che ha intorno (Il tempo si è fermato), umiliata e senza possibilità di riscatto (L’albero degli zoccoli), santa eppure così impreparata allo scettro divino (E venne un uomo), imbrogliona alla ricerca di una sbronza d’amore e carità (La leggenda di un santo bevitore), sconfitta dalla degenerazione dei costumi e dei duelli (Il mestiere delle armi), isolata sul suo vascello corsaro (Cantando dietro i paraventi), intellettuale senza dignità alla ricerca di una resurrezione (Centochiodi).
Olmi significa cinema antropocentrico, ma non alla maniera viscontiana: Olmi non è un esteta sfarzoso perché a lui, per narrare, basta la poesia più povera.
La sua teologia senza pretese è il canto di un brutto anatroccolo dall’occhio di cigno, un mantra senza ambizione (eppure maestoso) che fluttua con perenne equilibrio tra gli sbuffi nocivi dei tram e le vacche da mungere, tra l’oleografia di un passato così presente e il mosaico di un’attualità così già storicizzata.

Il chiodo che trafigge i libri, l’atto di un eccidio che non sparge sangue, la negazione di un sapere (di un Dio) per la possibilità della verità non è altro che un atto terroristico silente, così come lo è tutto il cinema di Olmi: un susseguirsi di violenze visive che giungono al bersaglio ma che si consumano placide, in un unico grande sussulto artistico.
Olmi si congeda dal cinema perché anche la finzione ha una sua durata che non va oltrepassata e che soprattutto non va sprecata. Olmi, uccidendo e sbeffeggiando la parola/l’immagine, difatti l’ha salvata. Un messaggio niente male, per un regista che aveva cominciato come impiegato alla Montedison…

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