Funamboli del vivere
Ci sono immagini la cui poesia è in grado di aggirare qualsiasi barriera culturale. Fotogrammi così intensi da risultare vividi a qualsiasi occhio, quale che sia il suo taglio.
Ci sono metafore che avvicinano continenti.
Con Still Life, meritato Leone d’Oro alla scorsa mostra di Venezia, Jia Zhang-Ke dimostra di essere tra i pochi fortunati capaci di distillare questi momenti preziosi e trasportarli su pellicola per regalarli allo sguardo dello spettatore. Quello che più colpisce in questo lungometraggio, infatti, è la grazia con cui il regista di Fenyang riesce a cesellare momenti fortemente evocativi all’interno di una narrazione sospesa, scarna, tipicamente orientale in quanto a silenzi e attese.
La cancellazione di un’area metropolitana è un tema potente. Soprattutto se a causare la scomparsa dell’insediamento sarà un fiume, il simbolo di vita per eccellenza (spostandoci di poco, basti pensare a Siddartha). Nella messa in scena di Still Life, però, l’enorme carica evocativa rappresentata dalla morte annunciata della città viene tenuta sullo sfondo, diventando contesto per una narrazione che si concentra interamente sull’elemento umano, come si intuisce fin dalla scena iniziale: un lungo e vibrante movimento di macchina che sfiora decine di volti, decine di esperienze e di storie.
I protagonisti che si muovono tra le macerie cercando di riannodare i fili delle proprie vite, portano sullo schermo la delicata grammatica interiore dell’esistenza. Le preoccupazioni, i bisogni affettivi, la rassegnazione, l’amicizia e l’amore affiorano timidamente nelle poche parole scambiate, nei semplici gesti quotidiani. Una sigaretta offerta, un numero di cellulare scambiato, una canzone intonata da un bimbo, una frase buttata lì: «Non dobbiamo dimenticare chi siamo».
Ed è proprio questa marcata umanità l’elemento che più di tutti può colpire lo spettatore europeo, suscitando in lui una riflessione dolce, una pietas fraterna.
Abituati a pensare alla Cina esclusivamente in termini di potenza economica, e ai cinesi più come popolo che come summa di individui, di fronte alla poetica della città sommersa non possiamo non riconoscere che in fondo, all’est e all’ovest, siamo tutti piccoli uomini costretti a confrontarci con una realtà che ci schiaccia. In qualunque angolo del globo ci sia capitato di nascere, non siamo che funamboli della vita, in equilibrio su un filo sospeso tra palazzi che crollano.
A cura di Marco Valsecchi
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