Labirinti di penombra
Le ragioni di una scelta ma anche i motivi di un dubbio. Questa appare la sfida principale affrontata dal film di Costanzo, ma In memoria di me ruota intorno a diversi codici rappresentativi. La luce e il buio, che sembrano scandire lo scorrere del tempo ma pure l’entità dei pensieri di un’anima in ricerca. I passi, ripetuti e, nel silenzio, assordanti, che conducono lo sguardo in una nuova dimensione, quella dell’attesa, della scoperta, della conoscenza di sè. I passi che conducono attraverso il buio, verso la luce. O che almeno dovrebbero. I corridoi del monastero, lunghi, misteriosi, lugubri, come la via del discernimento. I bagni, freddi e lontani. E poi le porte, spesso aperte, a volte chiuse, come quelle della vita, condizione definita dalla convinzione di ciascuno, dice qualcuno. Porte che collegano corridoi, che attraversano muri, che spingono oltre o che trattengono. Luoghi ambigui, talvolta indefiniti, altre volte sdoppiati. Come nel caso della vetrata che si riflette davanti alla porta della stanza di Andrea. Come l’idea stessa dell’incrocio, della strada che si ramifica in direzioni diverse. Ma forse di poco.
Nella rappresentazione di Saverio Costanzo, al secondo film dopo Private, si resta fino alla fine sospesi tra realtà e alterità, pensiero e immagine, scelta e fuga. Emerge un profilo non del tutto circoscritto, ma le motivazioni scricchiolano. Perché se è vero che Costanzo è molto audace nel gestire i turbamenti dell’uomo, le dinamiche relazionali rarefatte e la rigidità delle regole (il titolo infatti ricorda di ricordarsi…), è anche vero che si resta con la sensazione di disordine, e questo non sembra un effetto totalmente voluto. Lo sguardo di Costanzo resta proiettato verso l’immagine e verso il desiderio di mostrare le emozioni e i pensieri più che sul racconto. E portando all’esasperazione quest’ultimo concetto, si potrebbe addirittura pensare che gli uomini incontrati da Andrea durante la sua permanenza, un novizio contrario alla Chiesa, un altro contrario allo stesso Andrea, un uomo malato, potrebbero rappresentare tre tappe di passaggio vissute dallo stesso Andrea.
Ma anche sfruttando questa chiave interpretativa, la sostanza cambia di poco. Sembra che i conti, alla fine, rimangano aperti. Resta una domanda: perché si parla così poco di Gesù?
Curiosità
Il monastero del film è quello di San Giorgio Maggiore, a Venezia.
A cura di Matteo Mazza
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