Due facce, un solo volto
Otherside
L’attesa non è stata vana: la seconda fatica prodotta in pochi mesi da Clint Eastwood, istantanea commossa dei due lati del campo di battaglia di Iwo Jima, è di straordinaria fattura. Poche parole possono essere spese di fronte a un’opera che non solo supera, ma amplia l’orizzonte dello sguardo del precedente Flags of our fathers (id., 2006), portando il cinema bellico a vette che, in tempi recenti, non si toccavano dai tempi de La sottile linea rossa (The thin red line, Terrence Malick, Usa, 1998). Un film di guerra che assume i connotati di quanto di più lontano dalla guerra stessa possa esistere, commosso ma mai lacrimevole, colmo di pietas ma mai pietista. Tutto è sullo schermo, e oltre, in noi stessi, come Uomini. Sulla spiaggia di Iwo Jima, segnata per sempre dall’assurdo sacrificio di migliaia di ragazzi morti da entrambe le parti, paiono passare in secondo piano l’ottima sceneggiatura di Iris Yamashita, ispirata dalle originali lettere scritte in quei giorni dal generale Kuribayashi, il montaggio serrato, gli effetti mai invasivi orchestrati dalla produzione – questa volta, al contrario della pellicola precedente, assolutamente perfetta – di Spielberg e della sua Dreamworks, la straordinaria fotografia di Tom Stern, la colonna sonora, un Watanabe mai così convincente. C’è tutto questo, eppure, come sempre nei grandi classici firmati Eastwood, pare non esserci. Come la stessa regia, c’è ma non si vede.
Quella che traspare, al contrario, è la miseria umana di fronte a una delle bassezze peggiori che la stessa umanità possa continuare a perpetrare: non una lezione, bensì un consiglio. Quello di guardarci dentro prima di guardare negli occhi un supposto nemico, perché così facendo potremmo vedere noi stessi. Shimizu, soldato troppo umano per il fardello assegnatogli da un Destino fattosi cane, singhiozza che la colpa non è dell’animale che l’ha condotto a Iwo Jima. Secoli prima, un detto affermava “homo homini lupus”. Forse i cani hanno capito cosa significa essere Uomini, e gli uomini dovrebbero imparare ad essere meno Cani.
Tutte le madri del mondo
Oltre la battaglia, i due lati narrati da Eastwood in quest’opera così nettamente scissa, eppure stretti da un legame troppo forte per essere spezzato, passano dai padri del succitato Flags alle madri di Letters: donne quasi invisibili, celate da silenzi colmi di dolore e parole d’amore espresse nelle righe più semplici scritte ai propri figli al fronte, in cui il racconto del quotidiano diviene, come per il generale Kuribayashi e il soldato Saigo, l’unica ancora di salvezza in un oceano d’orrore di matrice apocalypsiana. La patria, l’onore, il valore, la vittoria sfumano nel sangue e nei suicidi imposti, nella morte inutile di ventimila uomini – tante furono le vittime giapponesi – voluta per ritardare una sconfitta inevitabile, nell’inesorabile verità dei fatti che porta Saigo a rispondere di non essere un buon soldato, ma soltanto un panettiere. Così come Doc, narratore della parte americana, ricordava come, in guerra, non si lotti per nient’altro che la propria sopravvivenza, e quella del compagno accanto, Saigo piange le lacrime di chi vede tradito il concetto stesso di vita per una febbre di morte mascherata da eroico sacrificio. «Un soldato non è forse inutile, da morto?», si chiede. E un Uomo? Le madri di Iwo Jima, americane o giapponesi, conoscono una sola risposta, che Clint sussurra con il grande cuore che continua a battere dietro ogni suo lavoro: mai più. Senza canzoni o retorica. Tutti quei morti siamo anche noi. E ricordandoci di loro, forse, eviteremo di morire ancora, in futuro.
Curiosità
Nonostante sia legato a doppio filo con il precedente Flags of our fathers, in Lettere da Iwo Jima non compare nessuno dei protagonisti della succitata pellicola, e gli stessi due cast non hanno avuto occasione di incontrarsi.
La sempre intelligente distribuzione italiana, in base a criteri di scelta decisamente poco chiari, ha relegato quest’ultima fatica Eastwoodiana a sole quarantasei sale in tutta la penisola. Una scelta “da Oscar”.
A cura di Gianmarco Zanrè
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