Dentro e fuori dalla tua mente
L’operazione Inland empire ha un sapore narcisistico e profondamente autoreferenziale dal quale è impossibile prescindere. David Lynch è però uno dei rari casi per cui ciò sia lecito. Autore feticcio, amato e osannato da critica e pubblico, il regista del Montana può permettersi di costruire un film al limite dell’incomprensibile, giocando a scambiare i ruoli degli attori che lo hanno accompagnato durante la sua carriera artistica e ammiccando, spesso in modo palese (leggi la video-installazione Rabbits che diventa uno degli elementi centrali del film).
La lunga discesa di Mulholland Drive penetra nel cuore della città delle stelle e attraversa Hollywood Boulevard, crocevia del cinema e dell’immaginario collettivo. Laura Dern è un’attrice incapace di distinguere la propria vita reale dal film che sta interpretando, cammina sul marciapiede delle star come se si trovasse in un limbo di incoscienza, condividendo una situazione di instabilità emotiva con il pubblico della sala. Inland Empire sembra un incubo intriso delle atmosfere di Occhi di serpente (Dangerous Game, Abel Ferrara, 1983), anch’esso incentrato su di un’attrice incapace di distinguere la vita dal film. Lynch, come nel film precedente, smonta i sogni di Hollywood con un incubo. Lo sguardo è esterno, non a caso la produzione è francese, e la critica dell’industria è decisamente evidente.
Nessuna certezza alla fine del film. Molte domande ronzano nella testa dello spettatore che ha superato, non con una certa difficoltà, le oltre tre ore di enigmi visivi. I perché potrebbero essere disvelati attraverso gli strumenti della psicanalisi o, preferibilmente, della psicologia cognitiva. Si percepisce un certo distacco, un’incomprensibilità dovuta alla mancanza di conoscenza delle mappe mentali che Lynch ha utilizzato per costruire una sceneggiatura dove tutto appare al suo posto, ma in cui non si trova la chiave per decifrare il messaggio nascosto. Come in un sogno il montaggio è onirico, fatto di suggestioni, di legami non ovvi.
David Lynch compie un passo successivo per sfondare il muro che delimita il cinema dalla video arte (strada già battuta dal regista con alcuni progetti giovanili e altri più recenti come il già citato Rabbits). Strada inversa, il salto da arte a cinema, è stata percorsa con successo mondiale da un autore come Matthew Barney, il cui ciclo di film Cremaster (prodotto dalla fondazione Guggheneim) è forse l’unico prodotto artistico che può essere messo a confronto con Inland empire. Due mitologie personali, due progetti mastodontici, due enciclopedie tanto universali quanto incomprensibili e due pesi massimi della propria arte che cercano di guardarsi, capirsi e comunicare l’uno all’altro.
A cura di Carlo Prevosti
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