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Charlie’s (the) Angel

Charlie's (the) Angel

Allora, vediamo come metterla giù. Gondry per chi scrive è un Autore di videoclip con la A maiuscolA (lo scrivo 3 volte, non fosse chiaro il concetto). Parlarne male è un po’ come sputtanare un vecchio amore: aiuta se hai problemi di stipsi somatizzata. Michel ha marchiato a fuoco col suo nome la Storia del formato “videoclip musicale”, ne ha fatto artigianato e arte, una maniera personale: chiunque di voi abbia visto le canzoni (ci tengo a non dire sentito) sa cosa intendo. Il regista di Versailles è un autore, ha forgiato un marchio di fabbrica, che tutti possiamo riconoscere: l’infanzia al suo apice creativo. Dopo moltissimi video indimenticabili e il capolavoro scritto da Charlie Kaufman, Se mi lasci ti cancello, Gondry estrae dalla fornace un nuovo film, e l’impressione è di trovarlo artisticamente solo, senza spalla, autoreferenziale, incapace di reinventarsi e sperimentare.

L’arte del sogno (ancora non si capisce bene per quale ragione i distributori italiani debbano tradurre in questo modo l’originale La science des rêves) sembra per molti versi un tentativo non riuscito di proseguire nella scia luminosa del precedente capolavoro del 2004. Ci metti poco infatti a capire che all’appello manca Mr. Charlie Kaufman, scrittore deus ex-machina per film ad alta cerebralità e magia capricciosa come Being John Malkovich ed Se mi lasci ti cancello. Sceneggiatore capace di imporre una struttura solida, lucidità negli snodi narrativi e significato ai virtuosismi spettacolari dell’artista Gondry. Entrambi i film dedicano lunghe sequenze visivamente straordinarie alla materia sogno (anche se semplici variazioni sul tema), legandole alle difficoltà nelle relazioni affettive.
L’ultimo film appare tuttavia più confuso e pretenzioso. Il tentativo di instaurare una relazione tra i protagonisti Stephanie (Charlotte Gainsbourg) e Stephàn (Gael Garcia Bernal), fulcro narrativo del film, viene sviscerato con profondità, ma in vari punti l’apparecchio, la sceneggiatura, s’inceppa, non si capisce dove vada a parare. Il precedente film da questo punto di vista era di una precisione maniacale, fin dal primo elemento (il titolo) tutto viene spiegato e tutto torna. Se consideriamo lo stesso piano, quello della sceneggiatura, è la stessa differenza che passa tra la terza stagione della serie Tv Lost, francamente prosciugata e tendente al surreale e il pragmatismo geometrico della seconda stagione di Prison Break. Da questo punto di vista, alcuni passaggi saltano come mollette su un tendone pompato. Gondry con i rapporti affettivi e la psicologia dei personaggi non gioca in superficie, s’infila con il coraggio di chi ha vissuto sulla pelle esperienze travagliate, fra i labirinti e i gangli incomprensibili dei sentimenti. Tra Stéphane e Stéphanie, non è banale amore a prima vista: Stéphane inzialmente è attratto dall’amica Zoe, l’interesse vero, le tenerezze, iniziano solo quando tra i due, coppia perfetta non solo nominalmente, comincia un progetto artistico. Molto del personaggio di Stéphanie però rimane inspiegabilmente oscuro, certe sfaccettature non vengono raccontate affatto. Durante una conversazione con Stéphane e un collega, il “segreto” della ragazza viene accennato e nel corso del film non viene più ripreso. Il finale non è semplicemente aperto, è confuso, non si capisce cosa succeda veramente e tutte le ipotesi che vengono in mente sono ostaggio delle improbabili seghe mentali del protagonista Stephàne. Se nel primo film i voli strabilianti nella mente e nella memoria del protagonista, che sono la plastilina (il “work of director”) su cui si sbizzarisce Gondry, erano al servizio di un storia e di un dramma strutturati in modo ineccepibile, qui sembra succedere il contrario: l’arsenale visivo scatenato da Gondry (come neanche Schwarzenegger ai tempi di Commando) a partire dalla mente e in particolare dai sogni del protagonista, sembrano una buona scusa per spargere tanto stupore fumoso su una sceneggiatura sconnessa.

I puristi diranno che il film va considerato nella sua singolarità, va bene, sarà anche vero. Dalla terribile regione delle Prugne tuttavia, (zona confinante con l’antica Laconia e terra natale dell’autore della recensione, n.d.r.) proviene chi i film li guarda facendo un po’ il difficile, ha memoria filologica e soprattutto, alla quarta ripetizione di chi nasconde mancanza di idee sotto effetti speciali “pevché lui ha studiato video spevimentale a Pavigi”, inizia a fare le boccacce, guarda caso, proprio come un dodicenne. Resta il fatto che il problema di Gondry è stato proprio il suo incontro del 2004 con Kaufman, a cui ha proposto un soggetto, buono, e il quale, con la sua penna, l’ha trasformato in un film adamantino. Da solo, Gondry sembra essere riuscito solo a lucidare col Mastro Lindo nuova formula uno swarovski a forma di bradipo.

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