In principio fu l’orrore
Sangue che cola come un uragano addosso a innocenti, mannaie, seghe elettriche, amputazioni al limite dello stomachevole, avanzi di carne umana serviti a tavola come prelibati manicaretti.
Lo schermo si tinge disgustosamente di rosso.
Una famiglia di pazzi deviati, il clan Hewitt. Il loro braccio armato, Letherface, bestione dall’incedere goffo che, munito di maschera posticcia e mal rattoppata, macella vittime come tocchi di carne. Un terribile mattatore irrazionale, animalesco, irriducibile. Un male che si nutre dell’odore ferrigno del sangue umano, senza remore.
Questi i macabri ingredienti di Non aprite quella porta – L’inizio, film che pretende, fallendo l’obbiettivo, di charire le origini dell’orribile massacro del Texas che si dice essere avvenuto a cavallo tra gli anni sessanta e settanta.
Paure e leggende metropolitane si fondono, trasformandosi in folklore, che a sua volta si reincarna in intrattenimento. Figure mitiche emergono dall’inconscio collettivo, partorendo rappresentazioni più o meno ben riuscite di tipi umani che popolano l’universo cinematografico. Questo è il caso di Letherface. Personaggio nato nel 1974 nel primo film della saga, un capolavoro del genere, dai toni volutamente sarcastici e grotteschi, poi evoluto nei quattro sequel, regalando sempre nuove e inedite letture sulla psicologia del personaggio. Tali premesse garantiscono il valore intrinseco del genere splatter e, i massacri, come tramite visivo per un’espressività di livello concettuale, assumono un senso accettabile. Ciò non accade in questo prequel, semplice prodotto commerciale dalla scarsa originalità stilistica, che ci obbliga con spudorata violenza alla visione di immagini prive di qualsiasi ricerca estetica.
Il ritmo, accompagnato da una trama piatta e scontata, non decolla trascinandoci inevitabilmente nella noia mortale. I personaggi sono abbozzati: dai due fratelli con fidanzate a seguito che imbattendosi nella sciagura affrontano i propri demoni, al clan Hewitt che, a differenza dei Firefly de La casa del diavolo, si rivela davvero poco interessante e privo di fascino. Motivazioni e psicologia latitatano senza ritegno e la vis degli eroi, diversamente ad esempio delle opere di Alexandre Aja, si riduce a scialba e superficiale rappresentazione di tipi umani scontati.
Una regia lineare che, senza i guizzi e l’originalità alla Rob Zombie, tracolla nel manierismo più banale, riuscendo a colpire solo grazie alla mattanza. Immagini troppo forti, sconsigliate a un pubblico debole di stomaco, popolano con squallida pedanteria un’ora e mezza di film.
Vergognoso.
Curiosità
Sulla veridicità della vicenda c’è chi ancora si interroga: alcuni sostengono a spada tratta l’ipotesi che il famigerato “faccia di cuoio” sia realmente esistito, altri che il personaggio cinematografico derivi da una reinterpretazione di un serial killer, di nome Tim Dean, che visse nell’America degli anni cinquanta, pascendosi di cannibalismo e nefandezze di ogni genere e misura.
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