Il cuore batte grazie alla magia di Resnais
Arrivato alla Mostra di Venezia quasi sottovoce, con un titolo provvisorio tratto dal lavoro teatrale di Alain Ayckbourn (Private fears in a public places), il film di Alain Resnais non solo si è aggiudicato il Leone d’argento per la migliore regia, ma ha anche incontrato il favore degli addetti ai lavori, dimostrando di essere tutto tranne che un film sottovoce. Sottovoce, semmai, è quello che si sussurra durante il film, quello che i personaggi mettono in gioco e che lo spettatore raccoglie con gli occhi. Messaggi, segni, movimenti, parole e sentimenti. Tutto sfumato e mescolato, senza seguire un’unica traettoria, senza imbrigliare la leggerrezza del discorso (della forma, attenzione, non del contenuto), senza nascondere contraddizioni e limiti, gioie e dolori, angosce e attese.
Il film di Resnais, proprio a Venezia durante la Mostra, ha cambiato titolo, ed è diventato Cuori. Poco cambia, se non il fatto che adesso un’unica parola sintetizzi l’intero discorso. Non sono i cuori il luogo degli incontri, delle paure, delle attese? Non è il cuore la parte più intima del corpo? Non è anche la zona più riconoscibile dall’esterno, che lascia più segni? Sembra che Resnais voglia dire, sottovoce, tutto questo. Sembra che voglia rappresentare i suoi sei personaggi in cerca d’amore, distratti, confusi, felici oppure tristi. Sei personaggi (più uno) che diventano persone vive attraverso gli sguardi, le parole, i corpi e i pensieri. Sei pezzi di vita (più uno) che si incrociano, entrano in gioco, si evitano e poi si rimescolano in virtù della forza che tutto muove o frena, spinge o trattiene, graffia o accarezza. C’è una dolcezza di fondo nel tratteggio di Resnais soprattutto quando si svela che chiunque ha paura della solitudine.
Un film morbido come la neve che fiocca di continuo, come le dissolvenze ripetute, i dialoghi, il ritmo, l’ironia. Morbido come il migliore dei maglioni di lana davanti al caminetto. Un film che emana un calore necessario e raffinato, capace di scardinare e sciogliere il freddo della mancanza di comunicazione, il gelo della distanza. E’ una riflessione che nasce dal profondo e che porta lo spettatore anche a sorridere, ma sempre con l’amaro in bocca, sempre con un occhio puntato alla realtà che si vive e che si deve affrontare. Senza tralasciare quel pizzico di realtà/crudeltà della quotidianità, con le piccole gioie o le inaspettate delusioni. Uno di quei gioiellini che emozionano ancora la visione al cinema.
A cura di Matteo Mazza
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