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Dedicato ai nostri nonni

Dedicato ai nostri nonni

Per Mimmo

«Abbiamo fatto il cimitero, ora non ci resta che riempirlo». Questa frase pronunciata dall’esilarante generale interpretato nel film dal critico Tatti Sanguineti è una boutade nera, un’istantanea perfida che riflette la follia della guerra e della vita in generale, una massima di inconfondibile marca monicelliana.
Questo deserto di polvere e sete è un milieu inevitabile della sua filmografia ormai sconfinata, un posto perfetto dove continuare a raccontare la sua creatura preferita, l’ homo ridiculus italiano.
Questi soldati sono completamente spaesati, coinvolti in una missione che non li appartiene, spiantati in perfetto stile Brancaleone da Norcia, tanto per non fare dell’auto-referenzialità.
Sono visi che incoscientemente sorridono nello scempio che li stronca, in una mirabile contestualizzazione che come al solito fotografa la tragicomica spedizione dell’uomo nei vari fronti della sua lotta con la vita.

Monicelli con quella magnifica vena cinica di burlone instancabile, in veste di primo combattente esperto del dramma dell’esistenza, racconta a novantuno anni la nostra storia, la storia di chi ci ha preceduto e che, dandoci la vita, ci passa il suo testimone di morte e commedia, riabilitando un ricordo importante e proseguendo la sua Bibbia di personaggi rappresentativi di questo paese.
L’operazione che compie il maestro è facile (ma non banale), minimalista senza virtuosismi tecnici, e funziona con efficacia, congedandosi tra l’altro con un finale acido che forse più di tutto convince della buona riuscita dell’opera, sempre molto godibile.
Eppure niente funziona così bene come questo titolo, come quest’immagine così ossimorica, così paradossale e fulminante, che sintetizza ciò che secondo Monicelli ci apprestiamo a essere, una volta messi al mondo.
Rose, come creature lucide, affascinanti, ma strascinate in un ambiente che uccide, ne asciuga il colore e che per questo ci rende, quando capita, cattivi (o solo malignamente furbi?).
Ne La grande guerra (1959), L’armata Brancaleone (1966) fino ad Amici miei (1975), Monicelli ha rappresentato sempre, come una mania personale, delle trincee miserabili dove si combatte una battaglia già persa in cui si muore comicamente come si nasce.
Che siamo in guerra o no, la frase del generale Sanguineti è sintomatica: i nostri cimiteri sono già pronti, sebbene noi siamo ancora vivi. Questa è la nostra tragedia infarcita di commedia (o l’inverso?): provare a cambiarla è inutile.

Nel film vediamo come il maggiore Stefano Strucchi (un Alessandro Haber in ottima forma) si ostini a suicidarsi per un grande amore che è invece un bieco tradimento, ci commuoviamo nell’osservare come il povero soldato Sanna realizzi il suo ambito matrimonio da morto e come il postino Bigagli finisca sotto una granata, consegnando il senso di tutta la sua missione all’affetto per una capra, che da qualche parte lo aspetterà sempre.
Tutte queste storie non fanno altro, però, nella loro esemplarità balorda, che porre un interrogativo su cui Monicelli alla sua età ancora non si è stancato di insistere: dopo vite come le nostre, perché mai la morte dovrebbe far paura?
Monicelli ci conosce e, pur dissacrandoci, ci ama, perché lui è come noi, più di noi: la morte non esiste, la morte è un gioco comico come i nostri drammi, per questo andiamo al cinema e facciamoci una risata, meravigliose rose nel deserto nelle nostre vite.

Curiosità
Oltre al critico Tatti Sanguineti, nel film recita anche uno scrittore italiano non abituato alle vesti d’attore: Tiziano Scarpa. Il film è tratto dal racconto Il deserto della Libia di Mario Tobino, che ha collaborato anche alla sceneggiatura.

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