Dialogo della bellezza
Semplice come una fiaba, complesso come la vita e il mondo. Ocelot, cantastorie dei popoli, racconta una leggenda d’amore, cioè di simmetrie e di chiasmi, di colori complementari.
Azur e Asnar è un film dell’esperienza, a partire dalla vita dell’autore, che ha trascorso la sua infanzia in Africa e ne ha raccolto i colori e le storie. Quindi esperienza della tecnologia del cinema d’animazione, inedito mélange di 3D e 2D dai risultati strabilianti.
Ma Azur e Asnar è soprattutto un’esperienza visiva, di cui lo spettatore è invitato a stupirsi. Ocelot non dimentica che ogni elemento dell’inquadratura è un fattore di significazione dell’immagine; quindi non è sufficiente parlare dell’importanza della multiculturalità, della bellezza dell’Altro, della necessità di lasciar cadere i pregiudizi. Ocelot si propone di farlo sentire allo spettatore nella varietà dei colori saturi che riempiono gli occhi, nella costruzione frontale dell’inquadratura, dove l’immagine è equilibrata soltanto quando Azur e Asnar, il biondo e il bruno, sono collocati simmetricamente l’uno davanti all’altro. L’assenza di una delle due parti sbilancia l’immagine, costringe a percepire la disarmonia creata dal conflitto, dall’assenza di dialogo, dall’incapacità di riconoscere il proprio fratello.
Un film che diventa esperienza della comprensione. Se non è sufficiente pronunciare parole di fratellanza, ma è necessario far vivere immagini di fratellanza, la parola diventa allora uno strumento per porre lo spettatore nella condizione di chi non conosce una lingua straniera, e che nonostante questo può arrivare a comprendere la situazione drammatica. Film bilingue come i protagonisti di cui racconta le imprese, Azur e Asnar non appone sottotitoli ai dialoghi in lingua araba, lasciando intatta la musicalità di un idioma, puro suono solo apparentemente incomprensibile. La soluzione al conflitto delle parole e dei popoli è nel chiasmo finale in cui l’uomo sceglie la donna che gli è complementare: la varietà genera libertà, conoscenza, arte. Proprio come nel film, dove l’eterogeneità di tecniche è al servizio dell’unità poetica, dove la più moderna computer grafica si sposa con una regia frontale e solenne, dove la semplicità del racconto non esclude la complessità visiva e testuale. «Ottanta minuti di bellezza», come sono stati definiti dallo stesso autore, perché il dialogo non è semplicemente utile, necessario, auspicabile. È innanzitutto poesia.
A cura di Fabia Abati
in sala ::