Incroci sensoriali
Con Babel Alejandro González Iñárritu torna a percorrere il sentiero tracciato in Amores Perros (id., 2000) e in 21 grammi (21 Grams, 2004), amplificando drasticamente la struttura a incastro che da sempre caratterizza il suo cinema. Il suo intreccio di storie questa volta si sintetizza in tre continenti diversi: Asia, America e Africa, dal Messico al Marocco, fino al Giappone, coinvolgendo persone ignare di essere agenti condizionanti di altre vite. Il primo tassello della riflessione di Iñárritu è anzitutto quello della responsabilità di ogni singolo uomo nei confronti dell’umanità. È un principio fortemente sottolineato in tutto il suo cinema, già presente in Amores Perros e forse ancora di più in 21 grammi, quando si parlava senza timore di redenzione e peccato. Babel è un film sulle colpe, ma è più duttile dei precedenti. Ha forse più sfumature rispetto all’assurdità spietata di Amores Perros e al cinismo di 21 grammi. Babel è più ramificato. E forse più ambiguo.
Nelle tragedie del marocchino Youssef, degli americani Richard e Susan, della messicana Amelia e dei giapponesi Yasijuro e Chieko si intravedono responsabili e colpevoli, ma anche vittime innocenti, come a sottolineare che il confine tra peccato e peccatore non è mai così delineato come sembra. Chi sbaglia paga, ma forse, con lui, paga anche chi non ha colpe.
La riflessione di Iñárritu affonda dentro i confini della morte e della vita, ricodificandone il significato stesso. Da una parte Babel racconta come il corpo muoia o viva attraverso le sofferenze fisiche, le ferite, il sangue (il cinema di Iñárritu è da sempre un cinema corporeo nel senso materiale); dall’altra racconta l’elevazione massima che il corpo, inteso questa volta come identità corporea, quindi spirito e anima, riesce o meno a raggiungere. Iñárritu sembra suggerire che l’unico canale attraverso il quale l’uomo può salvarsi sono i suoi sensi, sottolineando ancora una volta che il suo cinema non potrebbe essere solo un’esperienza corporea se prima non fosse un’esperienza sensoriale. Babel è un film sensoriale forse perché sfrutta, come nei precedenti film, gli ingranaggi dei cinque sensi dando maggiore importanza alla vista (la mira infallibile di Youssef, il linguaggio visivo di Chieko, le sviste comunicative e coniugali di Richard e Susan) e all’udito (lo sparo che assume il senso del peccato, l’assenza di rumori nella vita di Chieko, ancora la mancanza di ascolto, e quindi di dialogo, nella coppia Richard-Susan). Babel richiama l’attenzione dello spettatore all’intreccio ma soprattutto all’immagine, estraendo dallo sguardo i mezzi per tradurre i concetti della visione del deserto del Messico, dei palazzi di Tokyo, dell’aridità del Marocco. È un messaggio fin troppo rimarcato quello di Iñárritu. Assume quasi il tono di una predica, certamente vera, certamente percepita e vissuta, ma forse troppo scandita e insistente. Il peccato scaglia l’uomo nella solitudine, la redenzione lo proietta alla riunificazione.
Appare quindi ripetitivo questo sistema della narrazione, che, almeno nel cinema di Iñárritu, sembra essere giunto al capolinea. Lo shock emotivo, paradossale, temporale e contestuale di 21 grammi è inavvicinabile, nonostante in Babel si raggiungano altissimi momenti di coinvolgimento (come ad esempio durante la sequenza in discoteca) e nonostante Iñárritu confermi sempre di più il suo talento visionario (i primi piani, i campi lunghi del deserto, le panoramiche di Tokyo…).
Babel è una grande esperienza visiva. Probabilmente la sua apertura linguistica, spaziale, temporale e sensoriale chiude il triangolo lasciato aperto da Amores Perros e 21 grammi, ma è quasi certo che non chiuderà la riflessione di Iñárritu, tra i migliori (e pochi) a raccontare con così tanta forza e lucidità l’animo umano.
Curiosità
La sceneggiatura di Babel è stata partorita dal genio di Guillermo Arriaga, partner di Iñárritu anche in Amores Perros e 21 grammi, autore pure dello script del film di Tommy Lee Jones, Le tre sepolture. Arriaga è privo dell’olfatto, forse è per questo che i sensi sono fondamentali nelle sue storie. Il resto del cast tecnico si conferma notevole: Rodrigo Prieto, direttore della fotografia di Brokeback Mountain; Brigitte Broch, scenografa di Moulin Rouge!; Stephen Mirrione, montatore di Traffic; Gustavo Santaolalla compositore per Brokeback Mountain.
A cura di Matteo Mazza
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