Ombre dal passato
La ragnatela visiva e narrativa costruita da Tornatore è costituita da fili sottilissimi distinguibili e al tempo stesso affascinanti, non tutti sottesi con la stessa forza. La sconosciuta non è solo un film che indaga sul passato di una donna, ma è anche un film che si concentra sulle paure, sull’immaginazione tradotta in illusione, sulla redenzione del peccato, sull’Italia e forse, più semplicemente, sull’idea stessa di cinema. Entrando nella ragnatela di Tornatore si ha l’impressione di assistere a un grande imbroglio espresso attraverso nuove forme che guardano al futuro, ma che di fatto si specchiano nel passato.
Si intravede un primo segnale di questo discorso nella scelta dei luoghi. Tornatore colloca i suoi personaggi nella fredda Trieste e racconta la storia di una famiglia di orafi, gli Adacher, che accoglie in casa Irena, una badante ucraina. Una scelta narrativa, perché Irena si trasferisce dal Sud al Nord in cerca di lavoro ma che presto si codifica in una scelta simbolica. Trieste diventa un’allegoria dell’uomo: misteriosa, oscura, nascosta, esplicitamente descritta dalla freddezza delle relazioni, dalle illusioni, dai soldi. Gli Adacher sono mostrati in modo del tutto ambiguo, in bilico tra bene e male. È finta, perché gradualmente rivelata, l’ambiguità di Irena, alle prese con i suoi incubi e la sua missione di recuperare sua figlia. La Sicilia è quindi accantonata, è solo un frammento, un’apparenza proprio come tende a specificare ogni flashback. Il viaggio di Irena, o meglio, gli incubi della donna, hanno inizio proprio al Sud.
Un altro tassello importante del film è quello della paura, che più di tutti è l’elemento che dà respiro al percorso metacinematografico intrapreso da Tornatore. La paura non si manifesta solo negli sguardi di Irena, una paura che è rivolta agli incubi del passato, negli sguardi di Valeria, una paura che è immersa nel presente, o in quelli di Tea, una paura che è rivolta al futuro. È anche presente in tutto il film, una paura rivolta allo spettatore, che ammaliato dalle immagini è costretto ad entrare nel gioco creato da Tornatore. Si assiste al bilanciamento di thriller e noir e la sintesi è un’emozione costante, un’ansia che invade, una tensione (dello sguardo) protesa al melò che commuove.
Tornatore gioca con lo spettatore, lo affascina, lo inganna, crea cinema e sembra insistere nella sua personale riflessione sul valore delle immagini, della musica e della finzione che è forse il termine che meglio sintetizza la sua idea di cinema. Fatto di visioni rabbiose, nostalgiche poesie con un costante pensiero rivolto al rammarico e all’occasione perduta. Sembra, a volte, troppo concentrato a spiegare e a filtrare piuttosto che a lasciare libero sfogo all’immaginazione. Ma questo appare un piccolo vizio, o semplicemente uno sfizio.
A cura di Matteo Mazza
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