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cultura dell'immagine e della parola

New York e l’11/09:
un immaginario reale

Introduzione: la bellezza dello skyline più famoso al mondo
Vedere Manhattan (id., Woody Allen, 1979) ora è come sentirsi in bilico tra il passato e il presente. Il cuore di New York, bianco e nero senza tempo, dispiega tutta la sua grandiosità in widescreen, si mostra glorioso e immenso, inattaccabile. Luci e ombre che rendono mitico lo skyline più conosciuto del mondo e la musica di George Gershwin costruisce una leggenda culturale fatta di palazzi infiniti, ponti storici, vedute romantiche, strade già allora, molto prima di Sex and the city, da idolatrare
Vedere Manhattan ora rende inquieti, riempie di uno strano malessere: il bellissimo notturno di apertura che sfavilla di fuochi d’artificio, un’immagine di fumo e esplosioni che rimane favoloso solo nell’immaginario quasi vergine del 1979. Quasi vergine, perché la voce di Allen da subito ci racconta di New York come della città amata, mito e idolo, ma già “simbolo della decadenza della cultura contemporanea”.
Dopo l’11 settembre, viaggiare attraverso un certo immaginario cinematografico statunitense significa cercare le tracce nascoste della nostra realtà.

Gangs of New York, una nascita di sangue
Demoni che dall’inferno risalgono alla terra, suoni tribali, fango e lame, e il sangue. Il reverendo Vallon prima della battaglia si ferisce una guancia, tende il coltello al figlio dicendogli: “Non pulirlo, il sangue deve sempre rimanere sulla lama.”
Una battaglia per il controllo del cuore di quella sarà, in futuro, una città; una guerra tra fratelli, sulla neve candida. Poi il massacro a colpi di mannaie, clave, spadoni, coltelli da macellaio. Uomini che si sgozzano come maiali, carni lacere che si aprono, il sangue che impregna la neve. E i figli, il futuro di quella città, che guardano la mattanza, frequentano la morte, imparano la violenza. Negli occhi di Amsterdam la morte del padre vista da vicino, negli occhi di Bill Il Macellaio la cecità ha la forma di un’aquila. L’aquila, simbolo degli Stati Uniti d’America.
Questa la New York City del 1846 per Martin Scorsese. Albori di una città che nasce e cresce “nei giorni della furia”, che si nutre del sangue sparso di immigranti irlandesi, di neri liberati, di nativi, che in realtà nativi non sono. Qui Scorsese lascia in un significativo fuori campo il grande tabù americano, quello di una nazione fondata da immigranti, che hanno spazzato via le reali civiltà native. E infatti, è Bill a spiegare chi è un nativo: “Un nativo è un uomo che è pronto a morire per la sua nazione.”
L’America intera cresce come fosse una macchina da guerra: un piano sequenza descrive l’arrivo degli immigranti, arruolati nell’esercito con la promessa di denaro e di cibo, che ritornano in casse di legno, morti.
L’America intera si fonda su una democrazia che si limita a rubare voti (“Ricorda la prima regola della politica: le schede non fanno il risultato, gli scrutatori fanno il risultato”), a ingabbiare, spezzare, rinchiudere nella paura i propri cittadini (lo studio di Tammany, il politico doppiogiochista, è pieno di voliere e gabbie di uccelli).
L’America, e in piccolo, come un simbolo, New York, rifiuta con ipocrisia e violenza l’immigrazione, mentre implode al suo interno in una guerra di fratelli contro i fratelli: ai Five Points il tempo non scorre, la città gira solo grazie alle battaglie che si ripetono uguali, la vendetta è il motore di ogni azione, mentre la grande nazione, che si sta costituendo con le guerre di indipendenza, si autodistrugge, letteralmente sparandosi addosso con le navi che prendono a cannonate il cuore di New York.
Questa non è una fine, ma un’apocalisse, in senso letterale, una rivelazione: la schizofrenia mutilante che anima New York è la base su cui si fonda la sua crescita e la sua evoluzione. E nella scena finale, la morte rimane oltre il ponte di Brooklyn come un cimitero abbandonato, che osserva la città crescere, lentamente, inesorabilmente, fino al suo massimo splendore, fino all’innalzamento di quelle due torri che, nel momento della visione cinematografica, non esistono più nella realtà.
Quel sangue continua a rimanere sulla lama di una nazione che, come predica Bill, riesce a mantenersi viva perché fondata sulla paura.

A.I. Intelligenza Artificiale, la visione della distruzione
“Devi sapere che la fine del mondo si trova a Manhattan.” (Gigolo Joe a David nella stanza del Dr. Know.)
Il viaggio di David per diventare un bambino vero deve necessariamente concludersi nel luogo che rappresenta la fine del vecchio mondo, una New York sommersa dall’acqua, la statua della libertà che spunta dalla marea con la sola fiaccola.
“Manhattan, la città perduta nel mare alla fine del mondo.” (Gigolo Joe a David alle porte di Manhattan.)
Palazzi squartati, che lasciano immaginare vecchi uffici, scrivanie, armadi. Mattoni su mattoni, collassati gli uni sugli altri come dinosauri morti. Un panorama futuristico di distruzione, elegante e impressionante, al limite dell’estetismo, che è contemporaneamente profezia e rappresentazione di una realtà accaduta.
Poi, David si butta dal palazzo, esausto, distrutto dalla consapevolezza di essere il prototipo di cloni infiniti. E il corpo che sfila giù per la parete è la copia favolistica di quei corpi precipitati dalle torri in fiamme del World Trade Center.
“Ma se una favola è vera, non sarebbe un fatto? Un crudo fatto?” (David a Gigolo Joe nella stanza del Dr. Know.)

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