L’ambiguità dell’acqua
Il film di Deepa Mehta è soprattutto coraggioso. Racconta senza nascondere, è un’opera nuda e cruda che prova a smascherare gli inganni, a ricreare una verità dignitosa e punta il dito contro i falsi fideismi e le ignoranze collettive. È un film sull’India, sulla sua arretratezza che ancora oggi non si è del tutto risolta. È un film sui significati della religione, da interpretare e smascherare, tra laicismo e considerazione del sacro Verbo.
E’ anche e soprattutto un’opera sull’amore spento, sulla fiamma impassibile del desiderio che abita anche nei cuori di chi viene isolato e mortificato. Deepa Mehta “dona immagine” all’esclusione, alla clausura indetta da principi morali per le donne che siano rimaste vedove.
Donne costrette a non potersi più innamorare per evitare le fiamme dell’Inferno e prossime vite in sembianze animali. Donne che maledicono il loro sesso e che vivono in contraddizione.
La regista racconta tutto ciò con sensibilità e con uno stile tipicamente indiano, che mescola melodramma a esigenze acute di realismo, poesia a patetismo, musica di sitar e flauti a inni religiosi. La macchina da presa è nascosta dietro tende, sbarre e architravi come se tutto dovesse essere filtrato, come se anche noi non potessimo avvicinarci a queste donne intoccabili (o alla verità?).
E’ un film aspro che recupera il passato per non dimenticare che il presente non è tanto diverso.
Deepa Mehta intende giungere dritta al cuore e ha tutti gli elementi narrativi per riuscirci. Ha soprattutto gli occhi della piccola Chuya e i suoi piedini nudi tremanti per riuscirci.
Acqua che bagna, acqua che purifica, acqua santa maledetta
In questo film l’acqua arriva ovunque. Orizzontale, verticale. L’acqua dei monsoni, dei cieli neri e degli alberi piegati in due. Acqua meteorologica. Poi c’è il Gange, il fiume dell’espiazione, che avvolge i corpi e li purifica con la sua vischiosità fino a inabissarli mortalmente. Acqua santa.
Il titolo è un richiamo onnipresente al panismo acquatico presente nell’opera. Ma la sua costante è anche la sua contraddizione. Se l’acqua del fiume è una mistica esigenza, non bisogna dimenticare che lo stesso corso di notte diventa anche la strada che traghetta la vedova Kalyani alla prostituzione. L’acqua è santa, sì, ma è allo stesso tempo un’ingombrante maledizione che sovrasta i personaggi. Una necessità invocata dai dettami santi che vive anche come presenza, in qualche modo, castigatrice. Così che il suo torpore sia qualcosa di più di una semplice caratteristica fisica.
La svastica nell’ashram
In India la svastica è il simbolo della prosperità e in tutte le case ce n’è una. Eppure nella dimora di queste donne rinnegate ed escluse dal mondo, quel simbolo più che prosperità, si avvicina maggiormente alla lugubre versione nazi-fascista.
Nell’ashram la prosperità è un’illusione, un’abitudine che non si addice alla castità degli abitanti e quello spazio più che sacrale, appare un vero e proprio campo di concentramento, il luogo forzato della solitudine e della cattura delle anime. Uno spazio inaccessibile dove, senza stermini, si consuma la sterilizzazione umana. È solo la coincidenza non voluta di un simbolo, eppure, soprattutto in questo ashram della clausura, la cui vita si svolge proprio negli anni dell’avvento hitleriano, quel richiamo è più realistico e tetro di quanto si possa immaginare.
Curiosità
Water è il terzo film di una trilogia sugli elementi (acqua, fuoco, terra). Inizialmente doveva essere girato in India, ma i fondamentalisti indù hanno violentemente protestato bruciando il set e minacciando di morte la regista e le attrici e costringendo, nel 2000, la produzione a bloccarne la realizzazione, ripresa successivamente nel 2004 nello Sri Lanka.
A cura di Giuseppe Carrieri
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