L’insostenibile banalità del morire
E’ un fatto: tutti gli uomini devono morire. Qualcuno vecchio, qualcuno giovane; e ad alcuni è data la possibilità di prendere congedo. Se sia un privilegio o una condanna è difficile stabilirlo in maniera univoca, e certo non è questa la domanda sottesa all’ultimo film di Ozon, ammesso che ce ne sia qualcuna. Semplicemente si mostra, e mostrando si narra, si fa vedere: parla della morte, questa pellicola, e del suo contrario, che probabilmente non è la vita, ma la nascita; il tema è delicato, è personale, è ancor più difficile di altri da condividere, in quanto è costituito in gran parte da materia insondabile, inconoscibile. E’ ancora “aldiquà”, ma è già aldilà. E’ la presa di coscienza, la possibilità di un tentativo estremo di pacificazione: è in grado l’uomo di sapere veramente che deve morire? A ogni modo si narra, si raccontano gli ultimi mesi, gli ultimi giorni di vita di Romain, giovane omosessuale, professione fotografo di moda.
Procede il tempo e si snodano le situazioni, quelle tipiche imposte dalla premessa del narrato: alcuni critici hanno accusato la pellicola di inanellare clichè uno dietro l’altro. E’ vero, ma è ancora più vero che morire è banale, è un topos, un luogo comune, in qualche modo un clichè. Non accade nulla di straordinario negli ultimi tre mesi di vita di Romain: ha paura, piange, vomita, va a cena dai genitori e litiga con la sorella, si vede bambino, sempre più pensa alla propria infanzia. Sarà banale, ma è quel che accade, che lo si voglia o no, forse è quel che deve accadere. Guarda intorno a sé con gli occhi di chi ha concluso, suo malgrado, la partita, qualche volta con l’occhio di una camera fotografica, perché non si sfugge all’irresistibile tentazione di lasciar qualcosa (o qualcuno) dietro di sé. Ma non c’è patetismo in tutto ciò, molta onestà piuttosto, ed è soprattutto merito di una sceneggiatura perfetta, fatta di dialoghi estremamente veri, scritta dalla stesso Ozon. Come apice del film non si può non menzionare la scena dell’incontro tra il protagonista e la nonna, una Jeanne Moreau che espone sfrontata alla macchina da presa tutto il tempo che è passato sulla sua pelle, quella del viso rugoso e cadente, quella delle mani macchiate e bluastre.
Solo alla nonna Romain rivela la propria malattia. «Perché a me l’hai detto?» chiede lei. «Perché tu sei come me. Anche tu morirai a breve». Crudele ma vero, si procede verso il punto in cui gli estremi si toccano per ricongiungersi, ci si immerge in mare come metaforico ritorno al liquido amniotico, e su una spiaggia si attende il finale, mentre il testimone narrativo passa alla più scontata delle metafore di morte: il tramonto del sole. Forse per morire ci vuole coraggio: ce ne vuole anche per ammetterne e misurarne cinematograficamente la banalità.
Curiosità
Presentato in concorso al 58esimo Festival di Cannes (2005) nella sezione Un certain regard, il film viene proiettato contemporaneamente in dieci città – in versione originale con sottotitoli in italiano – nell’ambito di Cinque pezzi facili, iniziativa organizzata dalla Teodora Film in favore di opere di qualità, premiate nei maggiori festival internazionali, che la censura di mercato rende invisibili.
Filmografia
• Il tempo che resta (2005)
• 5×2 – Frammenti di vita amorosa (2004)
• Swimming Pool (2003)
• Otto donne e un mistero (2002)
• Sotto la sabbia (2000)
• Gocce d’acqua su pietre roventi (1999)
• Sitcom (1998)
A cura di Antiniska Pozzi
in sala ::