Pro e contro il Codice
La coppa del mistero di Silvia Poli ****
Andare a vedere Il codice da Vinci è un po’ come andare allo stadio per tifare l’inter, nonostante i bravi giocatori non manchino il tifoso torna a casa più spesso deluso che felice. Anche qui le premesse per la buona riuscita erano veramente molte: una storia accattivante tratta da un best seller, un cast ineccepibile e un regista con alle spalle film apprezzati da pubblico e critica. Eppure qualcosa dev’essere andato storto.
Il risultato infatti è un prodotto estremamente piatto, privo di pathos e di carica. I dialoghi arrivano a essere inverosimili, le inquadrature insistono costantemente sui primi piani dei protagonisti e sugli occhioni di Audrey Tautou (già incontrati ne Il favoloso mondo di Amelie – Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, Jean-Pierre Jeunet, 2001). La trama si trascina spesso priva di agganci logici, senza preoccuparsi di fornire convincenti spiegazioni allo spettatore. Vi è infatti un’inspiegabile fretta di svelare l’inganno, di arrivare alla soluzione, di andare avanti, che va a discapito della credibilità degli eventi e del gusto della suspance.
Il problema dunque non si pone nella veridicità dei fatti raccontati, ma nell’architettura della trama. Questo non è un film storico ed è pertanto sconsiderato accusarlo di raccontare dei falsi. Sono la scarsa cura dei dettagli, la trascuratezza, la mancanza di passaggi che rendano credibile la soluzione degli enigmi a limitare la buona riuscita dell’opera. Di quello che sarebbe dovuto essere un avvincente giallo, ricco di ingegnosi rompicapi e di incredibili misteri, non rimane che un thriller un po’ scontato, abbellito con i soliti effetti speciali e con qualche scena carica di adrenalina.
A diminuire la già scarsa energia del film sicuramente contribuisce la recitazione scolastica dei due protagonisti. Forse è colpa dei doppiatori, forse dei dialoghi tirati per i capelli, ma quale che sia la motivazione è incredibile come sia Tom Hanks che Audrey Tautou ricordino i bambini delle elementari intenti a ripetere alla maestra la poesia duramente memorizzata, come bravi pappagallini.
Però, seppur pochi, il film ha dei punti di forza: prima tra tutti la meravigliosa scenografia, curata in ogni particolare, ricca di giochi di luci e ombre che stregano completamente lo spettatore. Poche cose sono così spettacolari come il Louvre di notte, con i suoi lunghissimi corridoi traboccanti d’opere d’arte e un’atmosfera surreale, per non parlare della chiesa di Saint-Sulpice avvolta da una luce inquietante, presagio del delitto che presto verrà commesso.
La seconda nota di merito va a Paul Bettany, Jean Reno e Ian Mc Kellen, rispettivamente il monaco albino, il detective Bézu Fache e lo studioso inglese Sir Leigh Teabing. E’ infatti grazie alla loro strepitosa interpretazione che il film acquista vigore. Al contrario dei due protagonisti, spettatori passivi dei grandi avvenimenti che stanno accadendo, questi tre attori tengono in mano le redini della storia e riescono a darle quel po’ di ossigeno necessario almeno a tenerla in vita.
Epica contemporanea di Francesca Bertazzoni ******
Ron Howard non è avvezzo a temi intimistici, non è regista di “piccole storie”. Con Apollo 13 (1995), affronta il disastro spaziale del 1970, eroicamente sventato; ribalta e approfondisce con EdTV (1999) la reality-mania applauditissima nel film-caso The Truman show (id., P. Weir, 1998); sceglie il fortunato Jim Carrey per interpretare Il Grinch (How the Grinch stole Christmas, 2000), personaggio inventato dallo scrittore americano Theodor Seuss Geisel, conosciuto e amato dalle generazioni di lettori americani come Dr. Seuss, famoso negli Usa come da noi Pinocchio; poi tre giganti: il premio Nobel per l’economia John Nash, l’eroe nazionale del sogno americano Jim Braddock e il mito del western, con i grandi temi di questo cinema, la frontiera, la conquista della terra selvaggia, lo scontro con il diverso, indiano o mago che sia.
In linea con la sua ispirazione cinematografica d’hollywoodiana epicità, Howard affronta il gigante planetario di Dan Brown: romanzo per la verità sciatto e fondato su un meccanismo enigma/soluzione che si ripete fino alla noia, Il codice da Vinci (che nel titolo racchiude davvero un errore particolare, trasformando il luogo di provenienza di Leonardo nel suo cognome) rapisce leggende, falsi storici, mezze verità, tutta quella parte di “storia non verificabile e non autorizzabile”, per costringerla nello spazio intelligentemente angusto del romanzo: temi già conosciuti, per lo meno sentiti, mai messi in romanzo, ma trattati come saggi, appannaggio di pochi coraggiosi lettori. Invece, il thriller esplode in tutto il mondo, grazie proprio ai temi stuzzicanti, divertenti e interessanti, che instillano un gustoso dubbio.
Il contenuto supera di gran lunga la forma, almeno quella di Dan Brown. E Ron Howard, brillante artigiano, lascia scorrere nel suo film il racconto del misterioso Sang Real, filmandolo parola per parola, ma per togliere parole: niente spiegazioni ma visioni, le lettere si compongono sotto i nostri occhi, le figure si illuminano, i pensieri si fanno immagine. Una scelta lineare, modestamente effettistica, che traduce cinematograficamente il piacere di quegli indovinelli risolti, frase dopo frase, nel libro. Per lasciare poi, in quella che in tutto e per tutto si può considerare una “traduzione cinematografica”, piccoli avvertimenti della solida maestria del regista: Sophie, già dall’inizio, è doppia e sfuggente, parlando due lingue, mostrandosi nel bagno prima come immagine riflessa nello specchio, poi nella sua figura in carne e ossa. Silas, bellissimo personaggio dagli occhi che non si chiudono mai, nemmeno nel momento della morte, viene osservato attraverso il filtro dell’acqua santa, come un uomo già affogato, in una prospettiva mossa ma trasparente, che dà l’illusione di una visione oggettiva, mentre invita a una visione atipica (critica?). Ancora, a questo personaggio, il più ambiguo del film, viene aggiunta una patina d’erotismo che lega piacere e dolore, che obbliga lo spettatore ad ammirare un corpo nudo bianco e scultoreo nella lacerazione della sua carne. Come le reazioni epiche e disperate che questo thriller hollywoodiano suggerisce: orrore, bisogno di distogliere gli occhi e, vergognosamente, godimento, lo stesso bisogno di continuare a sbirciare.
Curiosità
Per paura di sgradevoli fuoriuscite di notizie il film è stato girato sotto il nome in codice The rose line, le battute sono state date agli attori solo su fogli intestati e le pellicole tenute al sicuro in valigette di sicurezza chiuse con lucchetti a quattro cifre.
Ron Howard non si smentisce e continua a lavorare sui giganti: il suo prossimo film sarà East of Eden, tratto dal famoso romanzo di John Steinbeck, già interpretato da James Dean per la regia di Elia Kazan.
A cura di Silvia Poli
in sala ::