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Intervista ad Amos Gitai

Amos Gitai, già autore di Terra promessa e Alila, è stato in Italia per presentare il suo nuovo film, Free Zone.

Da dove parte l’idea di girare il film in una zona franca?

Quel che mi interessa è soprattutto l’idea di zone franche in cui persone di origine e paesi diversi possono incontrarsi e trovare cose da fare insieme. È proprio questo che mi affascina: osservare il modo in cui le persone entrano in contatto gli uni con gli altri attraverso delle attivitò quotidiane e non solo grazie ad azioni politiche. I politici non hanno smesso di deluderci. Ora è il momento di partire dai piccoli dettagli ed è probabilmente grazie a questi che potremo cambiare le cose. Comprare un’automobile, ripararla, dividere un pasto, raccontarsi una storia. Sono queste le zone di libertà che mi interessano e dove avvengono fatti del genere.

Com’è realmente la zona franca da lei descritta nel film?

È un luogo ad est della Giordania, zona franca senza tasse e dogane, dove si recano le persone dei popoli limitrofi come l’Iraq, l’Egitto, la Siria e Israele, per vendere o acquistare automobili. In questa zona esiste una pace totale. Si possono addirittura vedere dei sauditi o dei siriani acquistare autobus israeliani. Grazie al commercio, qui le persone assumono un atteggiamento pragmatico, meno nazionalista.

La questione delle frontiere gioca un ruolo importante del film…

Le frontiere sono un vero problema per il vicino oriente: frontiere reali e politiche che innalzano sempre barriere mentali. Questo tema mi interessa molto. Chi o cosa oltrepassa queste frontiere? E come? Il mio precedente film, Terra promessa, trattava del traffico delle donne alla frontiera tra Egitto e Israele. In Free zone, invece, si tratta di far passare un’automobile attraverso la frontiera tra Israele e la Giordania.

Perchè la scelta di avere come protagoniste solo personaggi femminili?

I generali e i militari sono uomini. Sono loro i capi di Stato a eccezione di Golda Meir. I risultati sono evidenti: la regione è costantemente in guerra. Potrebbe essere interessante che le donne prendessero il potere. Il conflitto acquisirebbe forse una visione più umana, ma allo stesso tempo non voglio idealizzare troppo le donne. Oggi le donne sono agenti di cambiamento nella misura in cui devono ancora dare i conti con comportamenti sessisti. Tutto questo non ha niente a che fare con il loro dna, ma è a causa del posto che occupano all’interno della società. Finora le donne non hanno potuto godere al masimo della libertà. Probabilmente il fatto di non ricoprire sempre posizioni di potere, le rende maggiormente critiche rispetto alla situazione. Le donne possono essere agenti di cambiamento, ma è necessario che si prendano questa responsabilità. Non è qualcosa che va da sé.

Il ruolo di Rebecca è stato scritto per Natalie Portman?

La sceneggiatura ha subito diverse trasformazioni. Nelle prima versione, c’erano due uomini e una donna. Successivamente, ho deciso per tre donne. Quando Natalie Portman ha accettato di partecipare a questo progetto, abbiamo parlato e mi è venuta voglia di aggiungere alla storia degli spunti tratti dalla sua biografia personale. Pensavo che fosse interessante lo sguardo esterno, il suo punto di vista riguardo a ciò che lei vede e il modo di comprenderlo e interpretarlo. A differenza del suo personaggio, i genitori di Natalie sono ebrei. Ma mi sembra che lei cerchi, come il suo personaggio, di comprendere il mondo in cui vive. Ed è quello che cerco di fare anch’io.

Si direbbe che l’automobile sia per lei qualcosa di più di un semplice mezzo di trasporto…

In effetti, si può ritenere che l’automobile sia il quarto personaggio principale di questo film. Essa definisce un territorio limitato. Quando le tre donne, o meglio le due, sono in macchina, non possono rimanere distanti perchè la vettura impone una vicinanza che le obbliga a stare in contatto, a parlarsi. Anche il silenzio rappresenta un modo di comunicare. Ritengo che questo viaggio in macchina sia reale e allo stesso tempo metaforico.[img4]

Free zone sembra più rassicurante dei suoi film precedenti…

Mi affascina sempre di più l’umanità dei miei personaggi, il modo di esprimere la loro complessità e le loro contraddizioni. I personaggi che racconto sono comprensibili: ognuno con i propri problemi, ritmi, capacità di provare collera, di essere in disaccordo, di essere innamorati o provare affetto. Direi che ogni personaggio è caro al film. Questo è un modo per capire il concetto di relatività. Quando si riesce a esprimere questa idea di relatività, i personaggi diventano più umani. Nessun film deve focalizzarsi sulla collera.

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