When the man comes around
Una carezza in un pugno
Ancora una volta la natura, protagonista di una pellicola nella quale l’uomo non è altro che un ingranaggio di un ben più complesso ecosistema, sbalordisce e commuove per la sua incredibile, benché minacciata bellezza. Vanier, sensibile naturalista, sceglie l’herzoghiana via del racconto per riportare la vita reale del cacciatore Norman Winther, che, a tutti gli effetti, si considera un animale quanto le creature che caccia per il suo sostentamento o quanto i suoi cani, splendidi protagonisti della sua vita come della vicenda narrata, capaci di guidarlo e assisterlo in ogni spedizione. Reagendo d’istinto, osservando i paesaggi mozzafiato o l’umanità – ma sarà questo il termine giusto? – degli husky di Winther, paiono non esserci dubbi nel riconoscere il valore di una vita che andiamo progressivamente dimenticando, di un pianeta che inesorabilmente ci avviamo a deturpare. Eppure, separando il cuore dalla mente, e pensando soltanto cinematograficamente alla fatica del regista francese e della sua troupe, poco resta oltre una dichiarazione d’amore per una vita fuori dalla nostra portata e, quasi certamente, un sogno per chi da noi erediterà un pianeta ferito. Le stesse liriche e magiche pagine sapientemente filmate da Vanier, infatti, limitano al contempo una pellicola che pare aggiungere ben poco alla ricerca di una risposta sui meccanismi che hanno portato alla lenta ma inesorabile erosione – prendendo a prestito un termine famigliare ai naturalisti, pur se non corretto – del nostro pianeta. Al contrario di opere straordinarie come il recente L’incubo di Darwin (Darwin’s nightmare, Hubert Sauper, Francia / Austria / Belgio, 2004), Il grande nord si inserisce nella tradizione dei documentari indirizzati alle famiglie, o a chi ha bisogno di immagini da cartolina cui pensare per una sera soltanto prima di tornare alla vita di tutti i giorni, costruita anche sulla distruzione di quegli stessi luoghi. Intenso, avvolgente, caldo come un cane fedele: ma, forse, siamo giunti a un punto in cui più che di carezze, ci sarebbe bisogno di un morso ben assestato.
Uno per cinque
A dispetto delle critiche appena mosse, resta comunque da sottolineare quanto Vanier e la sua troupe abbiano rispettato vita e opinioni di Winther e compagni: per quanto possa sembrare disturbante e ostile agli occhi di molti, infatti, il cacciatore inteso come regolatore dell’ecosistema è una parte integrante della Natura e un suo garante almeno quanto i predatori di Madre Natura, dagli imponenti grizzly alle linci. In un passaggio di poca importanza cinematografica ma di grande impatto emotivo si sottolinea questo importante aspetto che, forse, se approfondito con più decisione, avrebbe potuto trasformare il film in un piccolo cult di genere: Winther dichiara, se non dovesse tornare perché partito o più probabilmente morto in una delle sue spedizioni, di non preoccuparsi di cercarlo in alcun modo, perché un animale che muore è in grado di sfamarne cinque ancora in vita. Questa la filosofia di una caccia – e di un’esistenza – perdute nel commercio e negli interessi di una globalizzazione che ha inesorabilmente contagiato anche i luoghi che potevano essere considerati incontaminati, e che, a loro modo e a loro tempo, sono stati i bacini da cui si è sviluppata la vita, anche umana, su questo pianeta.
Vanier e il suo lavoro non aiuteranno la società a ritrovare memoria di questi spazi, ma se dai piccoli passi nascono le grandi imprese c’è da sperare che, in futuro, una slitta trainata da cani che entra in un paese non sia da considerarsi soltanto il quadretto di una fiera.
Curiosità
Non soltanto Winther e la sua compagna, ma tutto il cast figurante nella pellicola – cani inclusi! – sono ripresi nella parte di loro stessi. La canzone By the rivers dark, tema portante della pellicola, è uno dei pezzi più noti e struggenti del cantautore Leonard Cohen.
A cura di Gianmarco Zanrè
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