Doppi déjà vu
Il piccolo roditore scandinavo che s’insinua nel sifone di un lavandino impedendo il flusso d’acqua viene prontamente rimosso, pare morto ma vive ancora. Poco importa, il lemming è conosciuto appunto per la mania suicida che porta migliaia di questi esserini a gettarsi nell’oceano affogando. Morirà dunque da sé senza bisogno d’infierire.
È un po’ l’immagine dell’accidente che capita ai protagonisti di Due volte lei, la vicenda del lemming, dove un suicidio e un assassinio non sembrano in definitiva sconvolgere la placida quotidianità di una coppia rampante, lui ingegnere che produce bizzarre telecamere volanti, lei casalinga dallo sguardo assente. Come il lemming nel lavandino, la coppia dei Pollock s’insinua nella tranquilla vita dei due. Alice, Charlotte Rampling, ci prova con Alain, finisce per suicidarsi in casa loro provocando in Benedicte strani sbalzi d’identità. Ma basterà un omicidio posticcio, con tanto di spiegazione dell’origine del roditore, per risolvere una vicenda che poteva portare a ben più interessanti risvolti.
Eppure tutto fila liscio finché Dominik Moll resta nei paraggi del thriller psicologico, senza accenni di surrealismo. Dopo l’inquietante suicidio di Alice la cui macchia di sangue sul muro resta per tutto il film, ci sono momenti di alta tensione, zone buie di reale inquietudine. Atmosfere rarefatte e lunghi silenzi suggeriscono appena quello che sta avvenendo, senza che ce ne sia mai la certezza. L’apice si raggiunge forse nel dialogo in montagna, dove la bravura della Gainsbourg ci sprofonda nello scambio d’identità con un’intensità tutta dovuta agli sguardi e alla recitazione, senza alcun trucco cinematografico.
La sceneggiatura, da qui in poi, è invece un bricolage di climi e situazioni già viste. Purtroppo Moll si lascia andare alle atmosfere lynchiane, di cui vediamo gli echi nei citofoni, nelle inquietanti telefonate al cellulare dove a rispondere non è mai chi ti aspetteresti, nelle strade perdute notturne e persino nella casa dei protagonisti. Lo scambio di persona qui è più sognato che reale, soprattutto non molto significativo e mal risolto nell’omicidio. E l’assoluta freddezza dei protagonisti nel finale non può che lasciare irritati. Non ne vengono spiegati i motivi e, volendo, nemmeno i motivi per cui non dovrebbero essercene.
Come Dream a little dream of me cantata allegramente sui titoli di coda è un congegno che spesso funziona in contrasto di una vicenda terrificante, ma in questo caso non aggiunge molto senso, Due volte lei lascia il vago sospetto di aver visto un’accozzaglia di situazioni prese da altre parti, senza che il tutto fosse tenuto insieme da una visione unitaria e originale.
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