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Chi trova un nemico trova un tesoro

Chi trova un nemico trova un tesoro

Ne Il mio miglior nemico Carlo Verdone recupera gran parte di se stesso e delle sue precedenti vite cinematografiche, proseguendo perfettamente in sintonia con quella sua ironia di tic e smorfie, dove la malinconia è uno specchio tangibile delle nostre vite e la nevrosi una compagna necessaria per evitare di fingerci felici. Verdone è il comico esaurito dalla risata che egli stesso produce, l’uomo perennemente mediocre che si traveste d’altro per sopravvivere e che per questo è destinato a essere scoperto, punito e ridicolizzato davanti a tutti. Quello che succede ad Achille non è nient’altro che la storia dell’ uomo verdoniano, da Sergio di Borotalco (1982), Rolando di Acqua e sapone (1983), er Patata di Compagni di scuola (1988), ovvero il declino di un buffo disgraziato. Nulla di scontato però, perché Verdone è cresciuto, maturato e si è perfettamente collaudato regalandoci opere agrodolci dove lui risulta essere sempre la parte migliore.
In questo scontro poco edipico ma molto commerciale con Silvio Muccino, Verdone rispolvera la maledizione dell’incontro casuale e devastante tra due personaggi, destinati a cambiarsi, nella loro inimicizia, l’un l’altro. Una volta erano la Buy di Maledetto il giorno che ti ho incontrato (1992) o la giovane Asia Argento di Perdiamoci di vista (1994), oggi il buon nemico è Silvio Muccino, abile nel suo ruolo di giovane ribelle al quale, però, non resta che raccogliere le briciole che cadono dal tavolo del grande Carlo.

Se la prima parte del film (la distruzione del personaggio di Achille) è estremamente convincente, con una commedia che si fa tragedia con grande disinvoltura, con un sarcasmo pesante e violentemente beffardo, con una storia d’amore tenue e non banale, all’insegna di un Verdone drammaticamente dissimulatore della sua vergogna, la seconda parte (la ricerca della figlia) è una somma di gag dove la continuità narrativa si perde nella vanità di una comicità irrefrenabile, trascinandosi verso una facile fine che tradisce quel buon segno di malincomicità verdoniana. Così succede che l’iniziale coralità dei personaggi, ben allestita in principio, si frantumi facendo sparire i cocci e soprattutto si trascurino alcuni sviluppi decisivi della vicenda. L’intenso significato della scomparsa della figlia diventa, così, un’indagine sgangherata più che un mistero affettivo che la nostra vuotezza deve colmare. Forse non è colpa di Verdone, ma di qualcun altro che dai vertici gli ha imposto di accontentare il pubblico. Peccato soprattutto perché il valore della ricerca familiare è un altro caro tema di memoria verdoniana, che lo stesso regista ha già ben raccontato in ottime commedie come Io e mia sorella (1987) o Al lupo al lupo (1992).

Ne Il mio miglior nemico il dolore dell’affetto violato, scomparso e ora introvabile ha avuto un sigillo leggero, congelato in una fotografia felice dove Achille, con la figlia, ci fissa a occhi aperti, accennando anche a un sorriso di felicità. E si ha l’impressione che in fondo si riesce a essere felici anche senza psicofarmaci. Forse alla fine Verdone avrebbe dovuto alludere di più e farci ridere di meno, come aveva ben iniziato. Il miele ha vinto sull’assenzio. Ed è un peccato perché forse questo sarebbe potuto essere il nostro miglior Verdone.

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