Il mercante infierisce
Non so se vi è mai capitato di seguire un corso di giornalismo. Prima di iniziare a darti qualche dritta su come si butta giù un articolo, di solito ti fanno una breve introduzione su quelli che si chiamano i “valori notizia”, cioè i motivi per cui qualcuno potrebbe interessarsi a quello che scrivi.
Una delle regole fondamentali è che più un avvenimento è catastrofico più è notiziabile.
È il motivo per cui questa settimana pensavo di parlarvi di 4400 (lunedì 27 e martedì 28, Raidue, 21.10) e invece mi esprimerò circa Il Mercante in Fiera (da lunedì a sabato, Italia1, ore 20.10). Perché 4400 è fondamentalmente l’esempio di come un’ottima idea possa venire guastata da una realizzazione prevedibile, mentre il format condotto da Pino Insegno è la manifestazione televisiva dell’Abisso.
Trattasi fondamentalmente di un gioco a premi. Forse si rifà all’omonimo passatempo che secondo il folklore italico le famiglie mettono in atto nella fase digestiva che segue i pranzi di Natale. Non lo so. Io non l’ho mai sperimentato e neanche i miei amici (nemmeno l’amico Gab, per la precisione).
Per quello che ho visto io è semplicemente una partita a carte contro un banco che parte da una posizione di enorme vantaggio (lui sa che premi si nascondono dietro a ogni figura mentre i concorrenti ne sono ignari) e che punta a tenersi in tasca il malloppo tenendo sulla corda fino all’ultimo i partecipanti.
Quello che la semplice descrizione meccanica della partita non rende, è il grado di fastidio che questi cinquanta minuti possono ingenerare in chi ancora crede che la Tv possa essere anche cosa buona e giusta.
Signore e signori venghino, che qui c’è il Cattivo Gusto!
Pino Insegno sembra un Enrico Papi imbolsito (a proposito, che fine ha fatto Enrico Papi? Qualcuno gli ha dato la lezione che si meritava?). Con un’espressione melliflua ai limiti del bovino specula sulla scarsa tenuta psicologica dei suoi ospiti. I concorrenti, dal canto loro, sono poveri diavoli catapultati nel Bengodi televisivo alla disperata cerca di soldi facili, che bramano con cotanta intensità che quando inevitabilmente se li vedono soffiare da sotto le froge, il più delle volte hanno lievi crisi di nervi e lacrimazione diffusa (in confronto i partecipanti a Chi vuol essere milionario? sono degli algidi cuccioli di Hannibal Lecter). Il pubblico in studio, d’altra parte, bercia e scroscia applausi in modo assurdamente casuale, acclamando o censurando le scelte dei giocatori in base all’umore del momento. E – dulcis in fundissimo – c’è una valletta che non parla e mostra giganteschi seni spremuti in un completino nero che dovrebbe arrapare, ma risulta talmente ostentato e volgare da rendere quelle stesse mammelle insopportabili (e comunque la bonazza silente non è certo una gran provocazione, visti i costumi della Tv odierna). Ah, dimenticavo che le carte hanno nomi buffi che rendono possibili battute aberranti del tipo: «allora, per il mio uccello mi dai le tue mutande?».
Di fronte a cotale spettacolo io mi sono principalmente chiesto quali strani esseri potrebbero mai considerarlo degno di essere visto. Due milioni e mezzo di strani esseri, stando all’Auditel di ieri, mica pochi.
Ma chi sono questi qui? Diamine, non riesco a immaginarmeli. Persone dai gusti alternativi? Agitatori? Non – morti? Coinquilini di Via Zanardi 33?[img4]
Alla ricerca di una spiegazione, ho provato a fare un esperimento di “marketing inverso”: mi sono studiato gli spot che vanno in onda durante il programma per provare a risalire al pubblico che lo guarda. Una televendita di poltrone con Mastrota, macchine, film, bibite, lucidalabbra, servizi telefonici, biscotti, collezioni di carri armati giocattolo.
Ma questa è pubblicità generalista!
E allora, cari lettori, sono giunto alla conclusione che una risposta c’è. Ed è allegorica.
Chi è che in periodo di campagna elettorale sta sintonizzato su Mediaset sorbendosi la visione di un imbonitore che promette ricchezze a degli affamati in un tripudio di applausi lanciati da persone che ragionano con la pancia?
Attimo di suspense…
… gli italiani.
Oh, yeah.
A cura di Marco Valsecchi
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