Prodotto da esportazione?
Baci da Venezia
È inevitabile: quando un occhio forestiero si posa sul nostro paese e tenta di ritrarne le bellezze il bivio da superare si presenta sempre, punto di non ritorno tra il capolavoro e la “ciofeca”. O ci si inoltra in punta di piedi e si dipingono le cose così come sono e come accadono, mantenendo l’occhio incantato del turista discreto che non pretende di capire tutto ciò che gli accade intorno (vedi Vacanze romane – Roman Holiday, William Wyler, 1953), oppure ci si tuffa a capofitto nel vortice dei falsi miti e con lente distorta si plastifica quel poco che rimane del Bel Paese. Questo è il caso della regia di Lasse Hallström che appiattisce lo spessore e la profondità della Venezia settecentesca a quelli di una cartolina così che anche le location, peraltro tutte veneziane, sembrano ricostruzioni artificiali degne di un set di Cinecittà. Ne risentono la trama e i personaggi a cui le calli e i tortuosi canali stanno fin troppo stretti e non bastano le corse sui tetti, le mongolfiere e i fuochi d’artificio a nascondere nel risvolto della cappa l’etichetta nemmeno troppo nascosta: “made in Usa”.
Povero Giacomo
Allora, vi chiederete a metà proiezione, che fine ha fatto in questo trambusto il mito di Casanova? Viene letteralmente inghiottito tra duelli, inseguimenti, scambi di persona, pizzi, merletti e carnevale. Peccato che per il taglio quasi piratesco dato al personaggio non si disponga del volto comicamente irriverente di Johnny Depp (La maledizione della prima luna – Pirates of Carrebean: The curse of the black pearl, Gore Verbinski, 2003), ma di quello angelico di Heath Ledger. Fatto sta che lo spettatore è già sazio quando arriva l’ultima portata… il vero amore. Altrimenti che film sarebbe senza una sana storia d’amore nata all’ombra delle maschere e dei corsetti? Capite, viene offerta a Casanova la possibilità di redimersi, di uniformarsi e di fatto di snaturare completamente la sua identità tanto che, arrivati alla fine, gli sceneggiatori, accortisi di aver praticamente cambiato soggetto, risolvono l’empasse con una vera e propria acrobazia stilistica: il passaggio di consegne con cui il vecchio rubacuori cede l’attività ben avviata al giovane pupillo, inesperto ma volenteroso.
Senza capo né coda
Infine segnaliamo che l’intera vicenda, di per sé incontenibile, è stata invano racchiusa in una cornice inconsistente con la quale si pretendeva di imbrigliare la vita del seduttore attraverso la figura della madre che, abbandonatolo ancora fanciullo, ricompare, quanto meno misteriosamente, per salvarlo dalla forca.
Una stonatura tra le tante che va a pesare sulla figura già dimessa di colui che una volta forse è stato il principe dei seduttori e che ora si congeda da bravo ragazzo, giurando che nemmeno quando saltava di letto in letto aveva mai messo in dubbio che “la mamma è sempre la mamma”.
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