Full metal Iraq
La bellezza americana della guerra di Claudio Garioni *******
Guerra del golfo. Nel deserto arrivano 5.000 soldati americani. Alla fine saranno 750.000.
Tra questi c’è anche Anthony Swofford, dall’infanzia difficile e l’amore felice, che lascia proprio la fidanzata per partire come “jarhead” (soprannome dei marine) in difesa della libertà e soprattutto dei pozzi petroliferi.
L’idea di Swoff è quella di andare a sparare al nemico.
La realtà in cui viene catapultato è quella di un deserto senza bersagli, dove non succede nulla, i giorni passano con duri addestramenti in un caldo per il quale si è impreparati. Così i veri nemici risultano essere l’ansia, l’attesa, la noia, il nonnismo, i pensieri che vagano verso casa, i dubbi. E gli unici colpi sparati da un tiratore scelto sono quelli in aria per festeggiare la fine della guerra.
Ecco allora che quando dietro la collina non c’è più nessuno e si può tornare a casa si scopre l’insensatezza di tutto quello che è successo, l’indelebilità della divisa da marine e del ricordo del deserto, l’impossibilità di ricominciare la vita dal punto in cui la si era lasciata.
Sam Mendes mostra la bellezza americana della guerra, fatta di cameratismo e partite di football nella sabbia, grazie alla sua splendida regia. Ogni inquadratura è come una bella fotografia, capace di sfruttare tutti i piani con maestria. E la colonna sonora è trascinante e ispirata, passando con disinvoltura da Don’t Worry Be Happy all’inquietante Jesus Walks di Kayne West, che si apre con le parole «Siamo in guerra col terrorismo, razzismo, ma soprattutto con noi stessi». La macchina da presa è sempre in mezzo ai soldati, fa sentire lo spettatore parte del gruppo, respirandone le paure, le tensioni, le follie.
Jake Gyllenhall, che ha avuto la parte proposta all’inizio a Leonardo Di Caprio e Tobey Maguire, dimostra ancora una volta la sua bravura, il suo carisma e la sua capacità di coinvolgimento (dopo le splendide prove in Donnie Darko – id., Richard Kelly, 2001 – e I segreti di Brokeback Mountain – Brokeback Mountain, Ang Lee, 2005).
Il citazionismo di Mendes si appoggia a Full metal jacket (id., Stanlay Kubrick, 1987) e mostra esplicitamente – dissacrando – i mostri sacri Apocalypse Now (id., Francis Ford Coppola, 1979) e Il cacciatore (The deer hunter, Michael Cimino, 1978), dai quali forse non si può prescindere nell’immaginario dei film di guerra, fino a far sorridere con Star Wars. Proprio se confrontato con film che sono leggende della storia del cinema, Jarhead mostra i limiti del soldato semplice che non è riuscito a piazzare l’affondo decisivo finale. Ma l’opera del regista premio Oscar per American beauty (id, 1999), benché non raggiunga i medesimi livelli del film con Kevin Spacey, regge bene, assesta i suoi colpi e finisce per far centro.
No, no e poi no! Tre volte no! di Carlo Prevosti *****
Primo No. I film di guerra fanno incazzare. È ovvio. Fanno incazzare sia che propongano una visione partigiana della guerra, con intento propagandistico, sia che invece pretendano di offrire un’immagine antimilitarista. Troppo facile. Siamo tutti d’accordo che la guerra è brutta, è sporca e i nostri ragazzi siano in fondo tutti dei cuori di mamma. Viene da chiedersi cosa abbia spinto Sam Mendes, tre anni dopo il contestabile Era mio padre, a tornare dietro la macchina da presa per trasportare al cinema il best-seller Jarhead, scritto nel 2003 da Anthony Swofford, soldato spedito tredici anni prima nel deserto dell’Arabia Saudita per combattere la prima Guerra del Golfo. Cosa vuole mostrare Mendes di nuovo, cosa vuole comunicare sulla guerra? “Non un film pacifista, ma un film antimilitarista, sulla follia della disciplina militare, del cameratismo, dei rapporti gerarchici, del ‘nonnismo’ e soprattutto della guerra” scrive Paolo Mereghetti, padre del dizionario dei film. Scusate se se la giustificazione non pare sufficiente e la vuotezza di un film vagamente estetizzante non sprona a rispolverare la bandiera della pace esposta sul balcone. Quella tratteggiata da Swofford è un’immagine della guerra molto diversa dalla solita riportata dai giornali o dalle televisioni. Questo è ovvio, in quanto è il racconto di una testimonianza vissuta dall’interno, e nel film di Mendes prende il volo solo nelle scene sulfuree e infernali dei roghi dei pozzi petroliferi o nella macabra rappresentazione di una partita di football sotto le maschere anti-gas per gli obiettivi dei reporter.
Secondo No. Gioca con i fanti ma lascia stare i santi. Mendes gioca con la fanteria, ma pecca di presunzione quando si accosta alla mitologia del film di guerra. Viene la pelle d’oca a paragonare l’addestramento iniziale con quello di Full Metal Jacket (id., Stanley Kubrick, 1987) la frase «Io sono niente senza il mio fucile, il mio fucile è niente senza di me» potrebbe essere usata in sede legale come prova d’accusa), il cuore di tenebra dell’Iraq è piccolo e nero rispetto alla profondità e alla vastità delle lacerazioni emotive di Apocalypse Now (id., Francis Ford Coppola, 1979) e nei momenti di svago, spesso accompagnati da canzoni “Don’t worry be happy” non è mai sufficientemente cazzone (ci passiate il termine da caserma, per altro perfettamente allusivo) per essere degno di un qualsiasi Three Kings (id., David O. Russell, 1999) videoclipparo.
Terzo No. Qualcuno faceva notare che la scelta di rappresentare il mondo militare sia parte di un percorso programmatico, che prosegue il cammino di Mendes attraverso i miti fondanti della società americana: prima la famiglia in American Beauty (id., 1999), poi il ruolo e la figura paterna in Era mio padre (Road to perdition, 2002) e ora l’esercito e la figura del militare. Mendes si rivela però un calcolatore freddo, razionale, tecnicamente molto bravo ma incapace di coinvolgere realmente il pubblico. Il sacchetto sospinto dal vento che rivela la bellezza del mondo è qui rappresentato dall’incontro inatteso di un cavallo nel deserto. Perchè? Forse a Mendes solletica l’idea di offrire immagini “poetiche” che poi entrino nel blob mentale dello spettatore cinefilo e che facciano così ricordare un film insignificante.
A cura di Claudio Garioni
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